Edmund Blair Leighton, Writing Letter by the Window 

Scrivere di sé. Il diario è una cura per l'io afflitto

Valentina Fortichiari

Il norvegese Knausgård e le sue tremila pagine di autobiografia. Poi O’Faolain, Bazlen, Croce. C’è differenza fra autobiografia e diario. La prima può essere impersonale, se si riesce a mettere un diaframma fra l’io e la terza persona

Quale impulso spinge a scrivere di sé? A tenere un diario? Si ama se stessi più della vita o il contrario se si sceglie la propria vita come racconto, oppure si desidera solo la compagnia del proprio pensiero? Si scrive per resocontare notti e giorni, fatti, incontri. Ricordi del passato. Bilanci e previsioni sul futuro. Altre volte per vigilare senza tregua, per allenare la memoria, per non disperdere intuizioni.


Essere certi di dire la verità – sempre – oppure evitare sguardi di curiosi è una inquietudine pressante quando si inizia l’avventura privata di un quaderno sul quale annotare-confessare Tutto. Impresa che necessita silenzio e solitudine, spesso nel buio della notte e dei sonni altrui. Un appuntamento importante, segreto, con se stessi.


C’è differenza fra autobiografia e diario. La prima può anche essere impersonale, se si riesce a mettere un diaframma fra l’io invadente e una narrazione in terza persona. Il diario quasi sempre dice io, parla in presa diretta, dal momento che si è soli fra sé e la pagina (o un registratore). Chi sa mescolare l’uno e l’altro genere, in una forma fluida, morbida, narra facendo finta di non essere lì, riuscendo a usare un tono di conversazione come se l’io fosse seduto accanto da qualche parte, presente-assente. Esempi non ne mancano: fin dal Medioevo, l’abitudine di tenere taccuini, quaderni di famiglia, ha fornito preziose storie dell’umanità.


Chi ha fatto dell’io il centro della propria arte è lo scrittore nato a Oslo (1968), che oggi vive in Svezia, Karl Ove Knausgård. Sei volumi di autobiografie (esordio nel 2009, in Italia presso Ponte alle Grazie e Feltrinelli), oltre tremila pagine che parlano di sé dal titolo Min Kamp (La mia lotta) – grottescamente allusivo al Mein Kampf hitleriano – oltre a quattro libri anch’essi autobiografici, dedicati alle quattro stagioni. I libri di Knausgård hanno provocato critiche, scalpore e dibattiti per i dettagli privati dati in pasto al pubblico, dettagli che non risparmiano famigliari e conoscenti, fra i quali l’ex moglie, la quale ha sofferto per i tradimenti scoperti tanto brutalmente. Quando si parla senza pudore o reticenze, si stringe una sorta di perfido “patto col diavolo”, barattando i dolori altrui con  fama e clamore per sé. Le parole tra noi leggere (1969), pregevole romanzo pseudo autobiografico di Lalla Romano, raccontava il rapporto conflittuale con il figlio, perduto per sempre dopo queste rivelazioni. Anche Emmanuel Carrère (1957) ha sottoscritto un “patto col diavolo” con il suo libro autobiografico Yoga (2020), che – col pretesto di parlare di yoga e meditazione – si sofferma sul tema della depressione, delle idee suicidarie che lo hanno tormentato a causa di un disturbo bipolare affrontato in trent’anni di analisi. La ex moglie gli ha intentato una causa, pretendendo la cancellazione delle pagine sul loro divorzio. 


Confessare di aver vissuto non è sempre un possibile atto lesivo di altri, se diventano protagonisti collaterali delle vicende narrate: a volte il suggerimento di tenere un diario della propria vita – e persino dei sogni – è un metodo psicanalitico freudiano per curare i pazienti. In questo caso la scrittura di sé si fa analisi essa stessa, è una forma di racconto autoterapeutico.


Ci arrivò tutta da sola Nuala O’Faolain (Dublino 1940-2008), giornalista, produttrice televisiva per la Bbc, opinionista dell’Irish Time, insegnante e scrittrice irlandese, quando scoprì che la propria cifra narrativa, lo scrivere di sé, le avrebbe migliorato la vita, facendola diventare persino una scrittrice di successo. Fu un percorso lungo, difficile. Il padre era colonnista sociale presso il giornale Dubliners Diary (il nome è significativo) e successivamente usò il nome d’arte di Terry O’Sullivan per collaborare al Dublin Evening Press. Certamente la sua attività influenzò la carriera della figlia, che tentò di emularlo scrivendo senza successo la biografia di un criminale irlandese e la storia dell’esistenza disastrosa di una donna irlandese vissuta oltre un secolo e mezzo prima. La vita di Nuala è stata in parte tumultuosa: studi in convento dal quale fu espulsa per cattiva condotta, una giovinezza inquieta, eccessi bohémien e solitudine, infine una laurea presso l’Università di Oxford. A causa degli sfortunati tentativi letterari, la O’Faolain si era formata l’idea di non essere una scrittrice. Eppure, riscatto e salvezza arrivarono quando infine approdò all’autobiografia, rompendo gli argini della sua istintiva, travolgente attitudine alla confidenza, a una disarmante sincerità. Il successo vero lo conobbe grazie al memoir Are you somebody? (1996), resoconto degli anni giovanili, un bestseller anche in Italia (Sei qualcuno? Guanda 2004). Ebbi la fortuna di conoscerla, quando venne in Italia a parlare del libro e di sé: organizzavo interviste alle quali assistevo divorando ogni parola delle sue rivelazioni. Era “tutta interiorità”, nutriva un bisogno disperato di mettersi a nudo con chiunque, quasi si aspettasse di essere perdonata e amata proprio per la scoperta della sua anima schietta e disordinata. La serenità l’avrebbe placata quando, sull’onda della fama, decise di trasferirsi a vivere per un certo periodo a Manhattan, in un appartamento condiviso con un gatto. Era finalmente felice? Forse sì, se il nuovo racconto di sé, My dream of you (L’isola nel cuore, Guanda 2000), fece centro ancora una volta. Finalmente Nuala O’Faolain era davvero diventata qualcuno. Laggiù, lontana dall’Irlanda, aveva capito di aver fondato il suo centro di gravità proprio nella favola spontanea di sé, nell’onda lunga della memoria e della scrittura-confessione, che calzava come un indumento perfetto. Del resto, se ancora avesse nutrito dubbi, fratelli e sorelle la convinsero che i suoi libri non erano eventi straordinari di cui stupirsi, ma un destino segnato dall’infanzia, quando Nuala li teneva svegli sino a tarda notte raccontando storie. Allora ci prese gusto e scrisse ancora un’autobiografia dedicata agli anni della maturità, ai problemi della mezza età, e al fatto che anche la solitudine aveva deciso di smettere di tormentarla: Almost there, 2003 (Dopo tanta solitudine, Guanda 2004).  Peccato che a 68 anni un cancro si portò via questa donna speciale, nutrita di dolore e insieme di esaltazione, di passione, della capacità di leggere in profondità se stessa per capire le vite degli altri.


Diversa, molto diversa dalla O’Faolain, e molto nota nel mondo editoriale anglo-inglese, Diana Athill (1917-2019) è stata l’editor di alcuni tra i maggiori scrittori della letteratura del Novecento (tra gli altri, Philip Roth, Margareth Atwood, Naipaul, Updike, de Beauvoir, Kerouac). Per i suoi meriti, si guadagnò il titolo di “Officer of the Order of the British Empire”. Ebbe una vita piena, attiva e lunghissima: si ritirò a 75 anni, guidò l’auto fin quasi a 90 anni, infine, dopo aver selezionato dalla sua immensa biblioteca pochi libri del cuore da portare con sé, andò in una casa di riposo dove morì a 102 anni. La Athill, che per anni aveva ricamato punti invisibili nella scrittura altrui, perfezionandola; che legava a sé i suoi autori come fossero figli mai nati, pubblicò due libri di racconti, un romanzo, ma è nota soprattutto come memorialista: una decina di libri autobiografici, tradotti anche in Italia (Rizzoli Bur), dai titoli singolari, Stet, la vita di un editor (“stet” in italiano equivale a “vive!”, annotazione che si usa apporre sulle bozze di stampa per annullare una cancellatura o una correzione già apportata), Alive, Alive Oh! (così anche nell’edizione italiana), Da qualche parte verso la fine, Il suono dolce della pioggia, per citarne solo alcuni. Ricalca il titolo del suo primo libro autobiografico (Instead of a letter, 1963) quello che può essere un’ulteriore forma di scrittura in prima persona, Instead of a Book: Letters to a Friend (2011), che comprende un trentennio di scambi epistolari con il poeta e scrittore americano Edward Field.


Ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’editoria italiana un personaggio stravagante, enigmatico, il quale, pur essendo il più lontano possibile dall’agiografia di se stesso e dalla scrittura tout court, non ha nascosto completamente tracce del suo passaggio, del proprio lavoro, delle sue frequentazioni. Bobi Bazlen è nato 120 anni fa (Trieste 1902-Milano 1965): intellettuale coltissimo e schivo, ha contribuito a fondare le radici della casa editrice Adelphi. “Il più immaginifico e inafferrabile talent scout letterario del Novecento italiano”, così lo definiscono Anna Foà e Marco Sodano nella “Nota in testa” a una raccolta da poco pubblicata che lo celebra: Bazleniana (Acquario Edizioni), miscellanea di testimonianze e contributi alla memoria, impreziosita dai disegni dello stesso Bazlen. Scoprirlo anche nei lacerti di scritti, noterelle, lettere editoriali (Lettere editoriali, Note senza testo, la corrispondenza privata con l’amata Ljuba) regala al lettore l’illusione di un incontro che svela reconditi itinerari di pensiero. Per ascoltarlo parlare in prima persona (“Io mi chiamo / Come? / Sono io? / Sì ma CHI?” dicono parole-disegno in forma di piramide, con soluzione a fianco…) bisogna scandagliare frammenti rari e brevi, per esempio i 31 fogli contenuti insieme ad altri documenti nel librone dalla carta speciale, racchiuso da un grande cofanetto blu, 799 esemplari in edizione numerata per gli amici, impressa da Adelphi nel mese di dicembre 1993, con il titolo emblematico La lotta con la macchina da scrivere. Una sorta di “autobiografia involontaria” dal momento che Bazlen amava l’anonimato e non avrebbe mai voluto essere sotto i riflettori: “Eppure ciò che ho detto ha fatto circoli nel mare… Così, un giorno, in tempi imperscrutabili, dove la mia orma si è persa, nuovi dei passeranno” (1950?). Il foglio 22 ha la leggerezza di una lirica scherzosa in rima sul “fior della gioventù”: “Ed ecco che con questo metodo io sono arrivato a scrivere già mezza pagina ed a far passare la terza parte del tempo che ho destinato a questa ignobile occupazione mentre di Maggio le ciliegie sono nere con che piacere l’amor si fa lei sulla scala io di sotto che la reggo e tutto veggo cielo mare frutti e fior corro a darle un bel bacione lei mi dà un ceffone si fa un ruzzolone…”.


Oltre a Bobi Bazlen, gli anniversari di personaggi della cultura celebrati lungo questo 2022 che volge alla fine sono stati innumerevoli: per citarne alcuni, Consolo, Raboni, Woolf, Buzzati, Dickens, Marquez, Zavattini, Pasolini, Kerouac, Musil, Flaiano, Leopardi, Pirandello, Morante, La Capria, Dickinson, Lispector. Se ne aggiunge un ultimo, importantissimo, Benedetto Croce (1866-1952), onorato di recente per i 70 anni dalla scomparsa, che permette di chiudere anche il tema della scrittura di sé, qui toccato solo brevemente.

 

Per certi aspetti i due intellettuali, Bazlen e Croce, profondamente diversi per nascita, vissuto, storia personale e professionale, sono accomunati da abiti mentali quali il pudore, la discrezione, la ritrosia naturale che li ha resi prudenti dispensatori di sé, abitatori di zone d’ombra dove difendere e occultare il proprio io. Antifascista, ideologo del liberalismo novecentesco italiano ed esponente del neo idealismo, Croce fu scrittore prolifico di saggi filosofici e letterari, storici e politici (80 volumi). Adelphi ha pubblicato un folto numero di opere, curate da Giuseppe Galasso, ma nell’occasione del settantennio, ha da poco riproposto nella Piccola Biblioteca, oltre a Soliloquio e altre pagine autobiografiche, il prezioso Contributo alla critica di me stesso (prima edizione Napoli 1915, Adelphi 1989), “un’autobiografia mentale”, a detta dell’autore.

 

Insieme a sei Taccuini di lavoro e oltre 100 mila lettere, i due libri rientrano nella scrittura di sé, ma – come in più di un’occasione ha chiarito scrupolosamente lo scrittore, attento biografo e commentatore di se stesso – non si possono considerare nel novero dei memoir: “Se facessi ciò, scriverei quelle ‘memorie’, le quali non mi sono proposto di scrivere per la semplice ragione che non ne vedo l’utilità e certamente non ne sento l’urgenza… non ho l’animo di parlare di me” (Soliloquio, 8 aprile 1915). Si può affermare che la pratica di tenere un diario giorno per giorno (l’inizio data il 27 maggio 1906) coprì un quarantennio, con lo scopo di esercitare “una specie di controllo su me stesso” e l’utilità di un “notamento esatto dei miei scritti e delle loro date”. Abituato a prendere appunti e schede per ogni scrittore studiato, Croce spiegò di aver applicato tale pratica “anche verso me stesso, che mi studio e, in certa misura almeno, com’è naturale, mi sono caro”. Tuttavia, alieno, sempre, dal parlare di pensieri e sentimenti, confessioni e ricordi di carattere privato, si proponeva di “invigilare” su se stesso per l’utile distribuzione delle giornate. Dal momento che la sua vera natura è stata da subito quella dell’uomo di studio e di pensiero (“vorrei essere giudicato tutto pensiero”), la cronaca della sua esistenza di pari passo sta tutta nella cronologia e bibliografia. La scrittura di sé diventa per Croce storia di una vocazione e di una missione: “Lascia che di te parlino gli altri” (imperativo fatto proprio non a caso da Guido Morselli, studioso di Croce, con il medesimo understatement). Una lezione indimenticabile di stile, coerenza, sobrietà quella di Bazlen e di Croce, che oggi sembra mancare a molti esponenti della nostra vita pubblica e politica.

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