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come fare "teoria del nuoto"

Cosa insegna chi insegna filosofia? Da Diogene alla “didattica per competenze”

Antonio Gurrado

Un dibattito fantomatico. Dalla fiction con Alessandro Gassmann alla collana del Corriere. E la convinzione che il metodo filosofico sia opinionismo condito di citazioni

Forse inevitabilmente, perfino la data è dibattuta: alcune fonti collocano la Giornata mondiale della filosofia il 17 novembre, la direzione generale per gli ordinamenti scolastici del ministero dell’Istruzione ha organizzato il relativo evento per insegnanti il 23, le case editrici specializzate vanno sul sicuro sparpagliando newsletter a tema su tutta la settimana. Allo stesso modo il fondamento stesso della filosofia occidentale, i primi testi da cui se ne dirama la storia – quelle frasettine greche, dalla celeberrima “Conosci te stesso” all’allure un po’ Baci Perugina di “Sappi cogliere le opportunità” – vengono attribuite in maniera tanto affollata e controversa da far affermare a Luciano De Crescenzo, senza tema di smentita, che i Sette saggi erano ventidue.

 

Non c’è certezza, non c’è fissità nella definizione della filosofia e, di conseguenza, nella struttura del suo insegnamento. Fino a Newton i fisici si sono definiti “filosofi naturali” e John Donne commentava la rivoluzione astronomica scrivendo che “a new philosophy calls all in doubt”; nel Settecento Dumarsais, in un testo poi saccheggiato nella voce “Philosophe” dell’Encyclopédie, scriveva che per il filosofo la società civile è Dio in terra, mentre per Diogene il cinico la filosofia doveva ritirarsi in una botte; il mestiere del filosofo secondo Wittgenstein o Bertrand Russell è molto diverso dal medesimo secondo Tommaso D’Aquino o Pascal. Dei tre filosofi italiani forse più importanti – Machiavelli, Leopardi e Gramsci – nessuno è il fulcro del programma scolastico di filosofia, finendo spesso e volentieri tutti monopolizzati dalle lezioni di italiano, ridotti a fenomeno più di forma che di contenuto. 

 

Per questo tutte le prime lezioni di filosofia in terza liceo si arenano sulla questione programmatica: che cos’è la filosofia? Agli insegnanti di matematica, di latino, di estimo catastale, non accade mai. Non esordiscono discettando sulla definizione della propria materia né ammettendo l’inestricabile scacco; entrano, si presentano e fanno lezione di matematica, di latino, di estimo catastale. La filosofia parte invece dalla consapevolezza dell’indeterminazione: è impossibile stabilire a priori cosa sia poiché, nel momento in cui la si problematizza, la si sta già praticando. Lo diceva perfino il giovane Aristotele nel “Protrettico”, esortazione un po’ truffaldina in cui argomentava che chiedersi se valga la pena di far filosofia significa star facendo filosofia, quindi tanto vale fare filosofia essendo impossibile non farla.

 

Alle superiori mi sono imbattuto in ben due definizioni della filosofia, parimenti valide. La prima è un luogo comune ripescato dalla professoressa di greco in un raro accesso di italofonia (per efficacia didattica, prediligeva il dialetto altamurano): la filosofia è quella scienza, con la quale e senza la quale, si rimane tale e quale. La seconda l’ho proposta al termine di tre anni di diatribe classificatorie con compagni e docenti: la filosofia è ciò che di volta in volta i filosofi hanno creduto che fosse. Solo dopo anni di ingiustificato orgoglio mi sono accorto che mi ero limitato a parafrasare l’idée reçue della professoressa di greco. In entrambi i casi la filosofia è un orpello, è un metallo capace di legarsi a qualsiasi altro metallo. È matematica per i filosofi analitici, è politica per i filosofi politici, è scienza per i filosofi naturali; ciò consente di accatastare nel programma di un’unica materia mistici e psicoanalisti, fisici e giuristi, sociologi e imperatori, analfabeti e grafomani. 

 

Da un paio d’anni un’università mi ha assegnato il corso di Didattica della filosofia, per insegnare a insegnare ai futuri insegnanti, e con onestà intellettuale parto sempre dando ragione a Luciano Canfora: spiegare la didattica è come fare teoria del nuoto. Nulla si impara prima di buttarsi in acqua. Con l’aggravante che, aggiungo, gli stessi insegnanti di filosofia non concordano su cosa stiano insegnando. Perfino la dicitura della materia è ambigua, se non erronea: la classe ministeriale di concorso parla di “filosofia” tout court quando in realtà agli alunni viene presentata la storia della filosofia, una scienza diversa che gode di uno statuto epistemologico a parte; non l’analisi critica di concetti per ottenerne di nuovi per il futuro, bensì lo studio dei testi e della loro correlazione per ricostruire la circolazione delle idee nel passato.

 

Questa distinzione sembra sfuggire a tutti, complicando ulteriormente le cose. Sfugge persino al ministero, che nel 2017 (regnante Valeria Fedeli) ha diramato degli “Orientamenti per l’apprendimento della filosofia nella società della conoscenza”, su cui dovrebbe regolarsi la fantomatica didattica per competenze. Fantomatica in quanto le competenze sono uno spettro che si aggira per l’Europa dal 1993, quando Jacques Delors le individuò nel “Libro bianco” come chiave dell’investimento sulle risorse umane nel lavoro, seguito due anni dopo da Édith Cresson per l’istruzione: la scuola doveva servire a “cogliere il significato delle cose” e ad “aiutare ogni individuo a sviluppare tutto il suo potenziale”. Non sono, da quasi tremila anni, gli obiettivi stessi della filosofia? E giù allora un dibattito – con fiorente bibliografia – su quali siano le competenze specifiche da trarre dalla filosofia, se esistano, se fondino tutte le altre; fino al documento del 2017 che scolpisce un decalogo per cui l’obiettivo della filosofa non è “insegnare in modo esplicito a pensare correttamente” bensì “formare un cittadino consapevole e capace di un uso critico del pensiero” e di “un rapporto intimo con la vita”.

 

Questo rapporto intimo, secondo gli “Orientamenti”, si ottiene grazie a un sillabo volto a “disimparare il modello sequenziale-cronologico della programmazione curricolare”, un sillabo che favorisca “il passaggio da una visione verticale a una orizzontale della pianificazione didattica”, un sillabo “skill centered che obblighi a un rovesciamento di prospettiva, un sillabo” – ma cosa cacchio vuol dire “sillabo”? Con buona pace di Pio IX, è lo scimmiottamento all’italiana dell’anglofono syllabus, ossia né più né meno che il programma di studi; e skill centered significa come non va imperniato sui contenuti ma sulle competenze che questi contenuti forniscono senza trasmetterle in modo esplicito. Attenzione. Non le conoscenze, cioè sapere che Hobbes è nato il tale anno e ha scritto i tali libri. Non le abilità, cioè saper distinguere la dialettica platonica da quella hegeliana. Ma le competenze filosofiche, che secondo gli allegati agli “Orientamenti” sono qualcosa tipo “cogliere il processo di cambiamento e innovazione del pensiero” o “riconoscere gli aspetti epistemologici e metodologici essenziali” in vista di “un libretto delle competenze filosofiche dello studente per favorire l’autovalutazione e la riflessione dello studente intorno alle competenze di cui ha bisogno”. La mia professoressa di greco aveva ragione: come la filosofia, le competenze sono quella scienza con la quale e senza la quale si rimane tale e quale. Forse avevo ragione anch’io; le competenze sono di volta in volta ciò che i competenti credono che siano, una scatola vuota il cui obiettivo è consentire di riflettere su altre competenze in un gioco di specchi infinito.

 

La cultura pop ha desunto una scorciatoia efficace. Quando in primavera il Corriere ha intervistato il diciottenne vincitore delle Olimpiadi della filosofia, le domande presupponevano che la filosofia fosse complicata (“non è roba da tutti”), che il filosofo fosse “un secchione”, che guardasse “con sdegno a videogiochi e simili” e che fosse uno scoop il fatto che il ragazzo avesse una fidanzatina. Idem, qualche mese fa la Rai ha trasmesso la fiction “Un professore”, in cui Alessandro Gassmann interpretava Dante Balestra, un insegnante di filosofia che arriva a scuola in ritardo di un’ora su una macchina scassata. Allo stesso modo il suo collega del film “Arrivano i prof” spiega facendo sedere i ragazzi sui banchi (uuuuuh) oppure passeggiando con loro in giardino, tutti nudi. Secondo la vulgata, dunque, le competenze del filosofo rispondono alla concezione della filosofia come scienza del buon vivere anticonformista; più Diogene che Dumarsais, più lo strambo Cartesio vestito di verde al quale appare la Madonna che il rigoroso, indefesso, civilissimo Aristotele.

 

Lanciando “Un professore”, la Rai aveva descritto Dante Balestra come “un docente fuori dal comune, che utilizza sistemi di insegnamento alternativi per entrare in comunicazione coi ragazzi”. Il suo metodo consiste nel parlare di Socrate per spiegare chi siamo, poi (nella puntata successiva) affrontare l’amore parlando di Roland Barthes; lasciando temere che possa affrontare da un momento all’altro la giustizia o l’identità degli indiscernibili, le monadi o l’ecologia, Spinoza o Numenio di Apamea, Scoto Eriugena o Kant, seguendo il capriccio e rafforzando gli spettatori nella convinzione che la filosofia sia opinionismo condito di citazioni a capocchia, un autoaiuto a guida carismatica per diventare migliori nei vari compartimenti dell’esistenza. 

 

Certo, è un personaggio immaginario; ma i milioni di telespettatori che l’hanno guardato esistono davvero. Ed è curioso notare come da questo ritratto caricaturale emerga un idealtipo di insegnante di filosofia che sia in grado di rispondere alle grandi questioni – un po’ come fa il bel libro “Citofonare Hegel” di Paolo Pagani (Rizzoli), in cui i filosofi di ieri rispondono alle domande di oggi su ecologia e genere, oppure la collana delle grandi parole della filosofia in edicola col Corriere – col semplice ristrutturare per argomenti il vecchio programma cronologico: una scansione che nessun manuale segue ma che, a quanto pare, è possibile estrarre miracolosamente dall’animo stesso degli studenti, rendendoli esperti di filosofia per il solo fatto che riflettono. Proprio come vuole un parto della fantasia ancora più sfrenata delle fiction Rai, la didattica per competenze.

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