La recensione

La filosofia a teatro

Luigi Azzariti-Fumaroli

"Theatrum Philosophicum” è il titolo del ritaglio critico che Foucault dedicò a Gilles Deleuze, volendo omaggiare colui che per primo aveva reso possibile la mise-en-scène d’un pensiero che gioca a dissipare

Situazione singolare, la recensione ad una recensione: premessa ad una mise en abyme, che non è altro che un mettere in scena. Come ogni produzione anche quella dell’abisso finisce infatti col saturare quel che apre. Di qui l’effetto comico, che non manca mai se l’abisso non è sufficiente. Così nei cartelloni pubblicitari dell’avena Quaker, in cui si vede – lo ricorda Aldous Huxley nel “romanzo di idee” per eccellenza, “Punto contro punto” – “un quacchero che tiene una scatola d’avena sulla quale si nota l’immagine d’un altro quacchero che regge un’altra scatola d’avena, sulla quale, ecc.”

 

Si crede d’assistere all’affermazione dell’Altro, ma si tratta soltanto della preservazione dell’identico. Analogo è il gioco della dialettica, di quello “spirito di contraddizione regolato e metodicamente coltivato, insito in ogni uomo” – secondo l’Hegel convitato di Goethe, registrato da Eckermann – che prende però, a mano a mano che vi si insiste, sempre più ad assomigliare ad un’interrogazione scolastica; di più, ad una “nevrosi”. La diagnosi potrebbe suonare un po’ ad effetto; ma – protestava Michel Foucault, che ne era stato l’autore – “testo senza contesto non è che la rovina dell’anima”, cosicché, prima di giudicarla speciosa, converrà capirne le ragioni.

Anzitutto – ammoniva anni dopo in un’intervista ad un foglio giapponese – occorreva comprendere la temperie nella quale quelle parole erano state pronunciate: “si era nel 1970”, un’epoca nella quale agli antipodi dei tradizionali, un po’ frustri tentativi di formalizzare il pensiero secondo le forme dell’eristica, andava facendosi strada una écriture estranea al pensiero dialettico ed irretita invece dalla “ripetizione”, in quanto espressione d’una “innocenza originaria, situata nel punto più prossimo del linguaggio e tuttavia sempre remoto”.

 

Di ciò avevano per primi recato testimonianza Kafka, Blanchot, Bataille, Artaud. Nessuno ancora aveva però condotto la riflessione filosofica a misurarsi con questo scenario. Per farlo sarebbe stato necessario ignorare la distinzione fra realtà ed illusione su cui fin da Platone poggiava la speculazione, così da fare di quest’ultima un “teatro”, nel quale è sempre l'indistinguibilità fra il vero e il falso a dominare.

“Theatrum Philosophicum” è il titolo del ritaglio critico che Foucault dedicò a Gilles Deleuze, volendo omaggiare colui che per primo aveva reso possibile la mise-en-scène d’un pensiero che gioca a dissipare “la filosofia della rappresentazione, dell’originale, della somiglianza, dell’imitazione, della fedeltà”.

 

Al contrario di quanto era avvenuto con Nietzsche, usato e deformato fino a farlo stridere, l’esegesi di Deleuze che Foucault propone procede ricostruendo alcuni modelli possibili di lettura delle sue opere maggiori, “Differenza e ripetizione” e “Logica del senso”. Quello che vi ritrova è “una differenza sempre nomade, sempre anarchica, dal segno sempre in eccesso, sempre spostato”. L’insistenza analitica lo porta a distillarla in excerpta che debbono esprimere un senso che può dirsi solo a partire dalla “differenza” stessa, che non è un semplice “scarto” (che sarebbe pur sempre connesso alla funzione regolatrice del concetto e delle categorie), ma è uno schivare l’identità attraverso l’accentuazione della “dualità sotterranea fra ciò che riceve l’azione dell’Idea e ciò che si sottrae a questa azione”.

 

È da questa “metessi rovesciata”, per la quale non vi è più distinzione fra il modello e la copia, ma solo fra questa e il simulacro, che gemmano quegli andamenti dispersivi che contraddistinguono la pagina foucaultiana nel suo procedere in larghe volute di frasi, con la grazia del grafomane e l’esuberanza del manierista, assecondando il ritmo d’un dettato che si espande in tutte le direzioni, senza arrivare mai da nessuna parte. Del resto, solo adeguandosi al pensiero di Deleuze non cedendo alla tentazione d’una chiarezza di comodo, e dunque accettando di metterne in luce tutto ciò che in esso è inquietante, sembra possibile a Foucault far opera d’interpretazione, ovvero d’individuazione di quelle creazioni concettuali, di quelle linee che fra esse intercorrono, e che sono simili alle “circonvoluzioni d’un movimento che occupa lo spazio alla maniera d’un turbine, con la possibilità di affiorare in un punto qualunque”.

 

Così facendo – osserva Filippo Domenicali nella postfazione all’edizione italiana (Mimesis, pp. 114, euro 9) che per la prima volta restituisce nella sua interezza, e in una fine e sensibile traduzione, lo scritto di Foucault – viene a costruirsi e decostruirsi un tessuto testuale in cui s’espongono, quasi per giustapposizione, una serie di annotazioni senza mai presupporre un “senso” antecedente – quasi che il senso non possa mai altro che essere un “effetto di lettura”. O forse meglio, come se l’illogicità fosse un conforto, come se il riso fosse permesso al pensiero e il caso una prova di eternità.