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Appunti di un telespettatore che “piange senza saperlo”

Alfonso Berardinelli

Siamo riusciti nell’impresa di rendere brutta la bellezza e stupida l’intelligenza

Qualche sera fa, all’inizio di un telegiornale, le notizie annunciate erano cinque: la quinta e conclusiva (ritenuta “culturale”, immagino) era che il cantante Biagio Antonacci compiva cinquantanove anni. Non cinquanta o sessanta, ma proprio cinquantanove. La notizia era in quel cinquantanove? C’era una ragione? Il mistero è rimasto tale. O forse tutti i compleanni di quel cantante, nessuno escluso, facevano di per sé notizia, il che sembra eccessivo. La tv fa questo, può farlo. 
Cambiando canale sono incappato in un quiz a premi. La concorrente era emozionata e tesa (realtà o finzione?) e la domanda che le era stata fatta riguardava il titolo di una canzone che il divo televisivo Rosario Fiorello aveva cantato all’inizio della sua carriera. Già, è così, proprio all’inizio. Per vincere il premio si doveva sapere, ricordare questo. Eh, per concorrere a questi quiz bisogna essere degli esperti, degli specialisti: sapere tutto non di Italo Svevo (questo sarebbe “nozionismo” scolastico!) ma di Fiorello. La giovane donna emozionata e tesa ha dato la risposta giusta e l’applauso è stato “scrosciante”.


Infine, per un paio di giorni, si è parlato di quel genio “sregolato ma simpatico” di Vasco Rossi, che è venuto a Roma, credo a cantare, oltre che a essere intervistato, e sembrava che a Roma non ci fosse uomo più importante di lui. “Vasco Rossi conquista Roma”!


A Roma c’era anche un convegno su Nicola Chiaromonte, autore da sempre ignorato dalla cultura italiana (ma non da quella statunitense, francese, polacca ecc. ecc.) e quindi un autore finalmente “da riscoprire”. Al convegno c’erano cinque relatori e un pubblico che andava dalle dieci alle trenta persone. Un po’ poco, per parlare di scoprire o riscoprire Chiaromonte.


Per fortuna si può fare della tv anche un uso migliore. Ma le trasmissioni più festosamente popolari sono quelle che insegnano agli italiani di ogni età che “la cultura è noiosa”. Quella di massa no, perché non è cultura, se non, come si dice, “in senso antropologico”.


Eco, Camilleri e seguaci hanno insegnato che la cultura di massa è fondamentale nelle democrazie di massa e che l’intellettuale che ci sa fare, per esempio filosofando sull’amore (Recalcati, Galimberti...), riesce a guadagnare bene. C’è solo un piccolo inconveniente o effetto collaterale: la cultura di massa è quella cosa che fa sentire noiosa la cultura non di massa, scoraggiando non solo la lettura di Guerra e pace e di Chiaromonte, ma impedendo di fissare lo sguardo anche su un articolo di giornale per il tempo necessario a leggerlo da cima a fondo.


Sociologi e antropologi, stufi di ripetersi, hanno smesso di dirlo: ma la nostra, dal Novecento in poi, è la civiltà nella quale della bruttezza e della stupidità ci si è accorti sempre meno. Siamo riusciti in una notevole impresa, quella di rendere brutta la bellezza (vedi le sfilate di moda: vedi la Moda) e rendere stupida l’intelligenza (qui non faccio esempi: mi sono ripetutamente espresso).


Ultima osservazione. La cultura di massa vive di horror vacui, non sopporta le pause e i vuoti. Li riempie sempre. Ma quel vuoto che viene riempito per essere riempito crea una pienezza del vuoto e sembra che i nostri giovani non riescano ad affrontare il vuoto: vanno in panico. In quel telegiornale qualcuno si era accorto che c’era un vuoto in coda e così l’hanno riempito con il compleanno di Biagio Antonacci (a cui faccio i miei migliori auguri). Ma io, di fronte al televisore, sono stato sul punto di sentirmi come lo spettatore del racconto di Kafka In galleria, che non essendo riuscito ad alzarsi per urlare “alt!” e interrompere lo spettacolo, “piange senza saperlo”.