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il marziano

Lo sguardo allegro di Flaiano nei suoi aforismi sulla società in dissoluzione

Matteo Marchesini

A mezzo secolo dalla morte dello scrittore abruzzese, di lui resta il ricordo di un personaggio avventuroso e gioiosamente salgariano. Un moralista reattivo che ha colto i dettagli del costume culturale e conviviale e che ha sintetizzato memorabilmente l’Italia dei voltafaccia ideologici

Tra i tanti anniversari letterari del 2022, quest’autunno ne cade uno non facile da celebrare degnamente: il mezzo secolo dalla morte di Ennio Flaiano. Per molti aspetti Flaiano è l’opposto di Pasolini, che negli ultimi mesi si è preso tutte le attenzioni con la sua presenza ingombrante: non un cattocomunista, ma un liberale; non uno scrittore certo di essere nella Poesia qualunque cosa faccia, ma uno scrittore diffidente di sé.

Eppure in entrambi i casi siamo di fronte ad autori di abbozzi, che attraversano inquieti i più vari generi (narrativa, saggio, teatro, cinema, versi) e la cui musa sembra la dissipazione. Ma in Flaiano, al quale si deve il profetico “moriremo prendendo appunti”, questa dissipazione non è controbilanciata dal personaggio mediatico, che in Pasolini riunisce sotto il suo segno le sparse membra dell’opera. Nell’opera flaianea, la mancanza apparente di centro deriva da una circostanza peculiare: la cellula creativa dell’abruzzese è l’aforisma che ingloba in sé un apologo. Questa cellula, in una serie inesauribile di combinazioni, può fecondare un racconto, un film, un poemetto, e soprattutto quei pezzi di costume tra elzeviro, bozzetto e fantasticheria distopica, in cui consiste la più tipica scrittura di Flaiano. E tuttavia si tratta di un elemento indipendente, che migra da genere a genere restando se stesso, e che quindi si sviluppa controvoglia, abitando con una certa resistenza e un certo noncurante scetticismo le forme più articolate. L’umorista di “Ombre bianche” occupa il cuore di quella galassia di calembouristi e satiri che, fioriti intorno alla fronda strapaesana, si sono poi riambientati nel Mondo di Pannunzio e hanno nutrito Arbasino, Sciascia, Pontiggia (si pensi alla fortuna della battuta flaianea “oggi il cretino è specializzato”). Anche quando non sono suoi, molti aforismi celebri vengono ricondotti a quello che potremmo battezzare l’arco di Flaiano, insigne monumento satirico della Roma di metà Ventesimo secolo.

A differenza di Brancati, lo scrittore abruzzese non tende a espandersi in un cordiale flusso romanzesco; e a differenza di Longanesi, non può riposarsi in un qualunquismo astuto e soddisfatto. Proprio Longanesi, grande talent scout, nell’immediato Dopoguerra convinse con anticipo Flaiano a uscire dai suoi giochi brevi e a comporre il suo unico romanzo, primo premio Strega nel 1947. “Tempo di uccidere”, uscito in tempi di neorealismo, resta un libro originalissimo: un incubo etiopico e ipocondriaco alla Camus, in cui pietà e ferocia diventano indistinguibili. Altrettanto originale è l’immaginario flaianeo filtrato nei film del giovane Fellini, altro vagabondo della Roma di metà 900 che come Ennio si porta dietro la malinconia immedicabile della provincia e la sua nebbia fantastica. Ma Flaiano resta soprattutto un moralista reattivo, che cogliendo i dettagli del costume culturale e conviviale, del linguaggio e del paesaggio, fissa in sintesi memorabili l’Italia dei voltafaccia ideologici, e di una burocrazia grottesca o mostruosa su cui mostruosamente o grottescamente s’innesta il miracolo economico. Tre esempi tra i tanti. Il primo, sui fatti del ’56: “Alle prime notizie della rivolta aveva cominciato un quadro di enormi dimensioni dal titolo: ‘II popolo di Budapest si batte contro la Tirannide’.

Ora lo continua, ma ha cambiato il titolo: ‘Il glorioso esercito sovietico schiaccia la reazione’. In vista di un premio ha tuttavia di riserva un terzo titolo: ‘Carri e figure’”. Il secondo, attualissimo: “Offrire il fianco al ridicolo è norma ottima. Il ridicolo può uccidere nelle società colte o aristocratiche. Nelle società arriviste e democratiche è la condizione necessaria allo sviluppo della Fama”. Il terzo, e forse più emblematico: “Quanti sono i pittori? A Parigi gli iscritti al sindacato soltanto sono trentamila. Un piccolo esercito. Possiamo farci un’idea di quanti ce ne sono a Roma ogni volta che l’assessore al Traffico chiude una piazza alla circolazione delle automobili: immediatamente questa piazza si riempie di pittori. Bisogna scegliere tra il parcheggio delle macchine e quello dei pittori. Francamente, i pittori sono preferibili perché inquinano meno l’atmosfera e fanno meno rumore. Ma ci sarebbe da ribattere che le automobili non dipingono e non suonano la chitarra”. Il leitmotiv flaianeo è quello di un’Urbe che digerisce come un pachiderma assonnato perfino le novità più scandalose – perfino i marziani – e neutralizza qualunque ribelle offrendogli un assegno assistenziale, iscrivendolo a una corporazione, regalandogli la tessera di un ente inutile.

Ma questo Marziale novecentesco non si esaurisce nella satira giornalistica: il suo è lo sguardo bianco e notturno di chi conosce il dolore, l’assurdo – la sua lingua è quella che userebbero i personaggi di Beckett se potessero uscire dalla loro afasia e abitare il mondo delle redazioni e del saggismo. Flaiano sa di essere parte di una realtà in dissoluzione, entropica e fatua, dove la letteratura non ha ormai spazio. Arriva a immaginare una futura enciclopedia nella quale si parla di lui come di uno scrittore minore dell’Italia del benessere, e gli si attribuisce il romanzo “Tempo di morire”. Prevede insomma già l’errore, l’oblio. Eppure gli sarebbe stato impossibile scrivere tante pagine, e tanto esilaranti, senza una buona dose di nativa felicità. Flaiano non è un personaggio come Pasolini, si diceva; ma un critico ce ne ha lasciato un ritratto proprio da personaggio, avventuroso e gioiosamente salgariano. Descrivendo un loro incontro dell’ottobre 1970, Cesare Garboli lo ricorda “vestito di bianco, con giacca e pantaloni leggeri, eleganti e sgualciti”. “Con quegli occhi umidi e neri”, commenta subito dopo, “il volto intenso, espressivo e baffuto di italiano centro-meridionale, le tasche piene di oggetti, l’abito tropicale, e quegli stupori intelligenti di chi finge di meravigliarsi di tutto per comunicarti non la sua intelligenza, ma la sua allegria, assomigliava al più caro dei miei ricordi maschili, a Yanez”.

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