La recensione

Nabokov, l'acerbo. Masen'ka, racconto del primo amore dello scrittore

Luigi Azzariti-Fumaroli

Arriva in libreria per Adelphi il primo romanzo dato alle stampe da Nabokov nel 1926 per i tipi della berlinese Slovo, piccola casa editrice émigré. A lungo relegato nel dimenticatoio, senza troppo rammarico da parte di Nabokov

Leggere Nabokov elicita non di rado le lacrime. Si tratta d’una commozione liliale, dalla quale ci si lascia avvolgere con voluttà. Sembra possibile, in quei momenti nei quali egli descrive e ricorda preziosi, eterei, fragilissimi «frammenti di passato», dispensarsi dal credere ch’egli non sia altro che un “Grande Mistificatore”, come lo definì Pietro Citati. La distorsione della realtà nella quale Nabokov indulge è quella propria d’una idea della letteratura come pura invenzione. «Il grande scrittore» – si legge all’inizio delle sue “Lezioni di letteratura” – è colui che riunisce in sé le qualità dell’affabulatore, del maestro e dell’incantatore, «ma è l’incantatore quello che prevale». E che quanto più si lascia affascinare dalla magia e tanto più potrà vivere, e far vivere i suoi lettori, da «liberi cittadini dei loro sogni». Tuttavia è assai raro che si diano dei sogni felici, pienamente realizzati. «Anche al sogno più bello – ha scritto Adorno – rimane associata, come una macchia la sua differenza della realtà, la consapevolezza del carattere puramente illusorio di ciò ch’esso dona. Ecco perché i sogni più belli sono come solcati da crepe invisibili».

 

È questa stessa convinzione ad ispirare l’Opera di Nabokov, perennemente sospesa fra il brivido concupiscente e onirico di Mnemosine e la disperata ammissione che tutto, del tempo soave dell’infanzia e della prima giovinezza, sia «finito, spazzato via, distrutto». Ogni cosa sembra non poter che seguitare a morire e al contempo passare attraverso un gran numero di resurrezioni, soltanto per morire ancora e ancora. Come accade, in “Parla, ricordo”, nell’evocare il cugino Jurij, morto appena bambino, e che era sembrato alla madre rivivere per un attimo, quando, infilata la mano negli anfratti d’una poltrona, ne estrasse un minuscolo corazziere disarcionato, le cui gambe arcuate stringevano ancora un’invisibile cavalcatura; o, in “Pnin”, quando il protagonista malinconicamente ripensa alla giovane, fragile, graziosa Mira, deportata in un campo di concentramento e uccisa con un’iniezione di fenolo nel cuore, ma che nella sua mente continua a vivere in giardini opalescenti in superficie e traslucidi nel profondo; o ancora, in “Maria”, quando, dopo anni in esilio a Berlino, Ganin ritrova l’amata Masen'ka, per subito riconfinarla nella «casa dei fantasmi», perché solo in essa «tutto è come deve essere, niente cambierà mai, nessuno mai morirà».

 

Proprio Ganin è oggi il personaggio più presente nell’immaginario dei lettori di Nabokov, per avere Adelphi mandato in libreria, alla rentrée autunnale, nella limpida traduzione di Franca Pece, il primo romanzo dato alle stampe da Nabokov nel 1926 per i tipi della berlinese Slovo, piccola casa editrice émigré. A lungo relegato nel dimenticatoio, senza troppo rammarico da parte di Nabokov, che per primo ne notò certe acerbità e soprattutto un’eccessiva concessione al da lui mai troppo vituperato racconto di sé, venne tradotto in inglese con la collaborazione dello stesso autore nel 1970, col titolo di “Mary”, che sembrò ben accordarsi alla neutra semplicità del titolo russo, “Masen'ka”, ora peraltro giustamente preferito a quello, invero troppo evocativo d’atmosfere neorealistiche à la Lalla Romano, di “Maria”, scelto invece per la prima edizione italiana, curata, nel 1971, da Ettore Capriolo per Mondadori.

 

Masen'ka, che Ganin scopre ormai sposata allo sbiadito Alfërov, ospite come lui d’una fatiscente pensione per emigrati in fuga dalla Russia bolscevica, era stata, come Tamara per Nabokov, il suo primo grande amore. Tamara, un nome fittizio che ha «la stessa sfumatura di colore di quello autentico», si chiamava in realtà Valentina Šul’gin. Quindicenne al tempo in cui il futuro scrittore, nell’estate del 1915, nella tenuta di Vyra, se ne innamorò, venne inghiottita due anni dopo dalle spire della Rivoluzione d’ottobre, lasciando dietro di sé l’eco d’un palpito lancinante. Ancora per qualche tempo, quando già la famiglia Nabokov era «appollaiata sulla cengia meridionale della Russia», in procinto di partire per l’Europa, ogni volta che un sacco postale raggiungeva la Crimea, c’era sempre una lettera di Valentina, destinata a ricevere senza troppo ritardo risposta. Allo stesso modo Ganin, pur fra le distrette e le difficoltà della guerra civile, aveva cercato di corrispondere con Masen'ka; e «c’era qualcosa di commovente e di meraviglioso nel modo in cui le loro lettere riuscivano ad attraversare la terribile Russia di allora, come bianche farfalle cavolaie in volo sopra le trincee».

 

Nel rileggere quelle lettere, vergate con una calligrafia piccola e rotonda, come se corresse in punta di piedi, Ganin ripeteva un gesto ch’era già stato di Nabokov: un «riesumare ampio» che si differenzia dalle proustiane intermittences, perché del tutto estraneo all’inopinata, involontaria sensazione che innerva queste ultime, e confidente piuttosto nelle risorse dello scrivere, in quanto – avrebbe detto l’ammirato Kafka – «trafficare coi fantasmi». È soltanto nella scrittura, visione ante somnum per eccellenza, che sembra infatti possibile rivedere Vyra, Valentina, i propri genitori ancora immersi in un’atmosfera di sicurezza, di benessere, di tepore, e non credere perciò al tempo, così da concedersi l’illusione della sua pur momentanea assenza. È questa, per Nabokov, l’estasi, «e dietro l’estasi c’è qualcosa di difficile da spiegare»: un vuoto nel quale si riversa tutto ciò che ci è caro, e che, infrangendo strati di pensiero, è possibile vedere avvolto in un diafano foglio di carta come un frutto prezioso. Si prende in tal modo parte – ha osservato Sebald – alla seduta spiritica organizzata da Nabokov, «e persone e oggetti al tempo stesso estranei e familiari si affacciano in primo piano, irradiati da quella claritas che dai tempi di Tommaso d’Aquino è ritenuta lo stigma di una vera epifania».