La veduta del palazzo Hofburg a Vienna, Austria (Getty)  

pellegrinaggio architettonico

Riflessioni sulla vita facendo il turista nella casa di Wittgenstein

Costantino della Gherardesca

Nell'abitazione viennese del filosofo, tra la Kundmanngasse e la Parkgasse, dove ora è ospitato l’Istituto bulgaro di cultura. L'incontro con il custode empatico e la ricerca della salvezza nella solitudine

Sono a Vienna per qualche giorno di pellegrinaggio architettonico e, come prima tappa, ho deciso di andare a visitare la casa che Ludwig Wittgenstein costruì per sua sorella, tra la Kundmanngasse e la Parkgasse. Mi aggiro attorno all’edificio per venti minuti prima di essere avvistato dal custode. Mi dice che in quel momento non sono previste visite quindi la casa è chiusa al pubblico. A quanto pare, avrei dovuto prenotare, ma il signore – mostrando empatia verso il mio smarrimento – mi lascia entrare. Approfittando del cuore d’oro del custode, una famiglia canadese prova ad accodarsi a me, ma poi desiste quando gli si fa presente che ci sono sette euro di biglietto da pagare. Il loro budget priorizza, giustamente, una app che segnala i fruttivendoli di turno: d’altronde nel 2022 anche la carota è pharmakon.

  

Oggi Casa Wittgenstein non è più un’abitazione privata, ma ospita l’Istituto bulgaro di cultura e non mi pare che riceva le attenzioni e le cure che merita. Commosso, passo al custode i dieci euro per il biglietto e lo prego di tenersi il resto, certo che questo mio atto di mecenatismo sarà ripagato in una delle mie prossime vite. Purtroppo non parla né inglese né italiano, quindi a gesti gli spiego che so bene quanto sia importante quell’edificio, cosa che lo riempie di orgoglio al punto che – noncurante della barriera linguistica – si improvvisa guida turistica e mi accompagna in un tour della casa. Mi porta in giro pregandomi di soffermarmi su tutti i dettagli progettati da Wittgenstein: le porte, le finestre, i termosifoni, l’ascensore… Arrivati davanti alla nota proto-tapparella positivista, anch’essa frutto di una delle più grandi menti del Novecento, mi commuovo. Volgo lo sguardo per nascondere le lacrime e i miei occhi lucidi si posano su un angolo del pavimento, sul quale è possibile notare l’osceno contrasto tra lo splendido pavimento originale e una sgraziata toppa aggiunta in anni recenti da qualche zelante manovale senza cuore.

  
“Stava solo eseguendo degli ordini”, penso tra me e me, cercando di giustificare quello scempio, ma il mio dolore è evidente e il custode se ne accorge. Sul mio volto si dipinge la dignitosa sofferenza di un anziano sopravvissuto, tornato sul luogo in cui è stato compiuto l’eccidio del suo popolo. Il decoroso spettacolo della mia tristezza commuove il custode che, sempre a gesti, mi lascia intendere di fare come fossi a casa mia: posso scattare delle foto e – soprattutto – fumare. Lui è l’unica guardia di turno e io l’unico visitatore, due fantasmi sulla tolda del Titanic.

  
Caro custode, comunichiamo solo a gesti, eppure solo tu mi capisci. In Italia, tra i miei colleghi dello show business, sono un incompreso. Proprio come il leone nel paradosso linguistico di Wittgenstein: se un leone potesse parlare, noi non potremmo capire quello che dice. E non perché non parliamo la sua lingua, ma perché la sua lingua (come la nostra, come quella di chiunque) è permeata dal mondo in cui vive: un mondo che non conosciamo, del quale ignoriamo le regole. Che ne sappiamo noi del mondo di un leone? E che ne sanno i miei colleghi anatroccoli del mio mondo di cagnaccio solitario?

  
Adorato Ludwig, quanto sono tristemente simili le nostre vite! Tu un genio, io un coglione. Tu eri ricchissimo e vivevi da povero. Io sono poverissimo e chi mi sta intorno mi impedisce di fare altri debiti. Entrambi abbiamo esistenze tormentate, non tolleriamo i rompicoglioni e per questo abbiamo scelto di cercare la salvezza nella solitudine: tu in un capanno in Norvegia, io nell’Area C di Milano.
Peraltro, caro Ludwig, ho il sospetto che la scelta controintuitiva di isolarti dal mondo accademico per finire le Ricerche filosofiche (la tua ultima e travolgente opera) fosse dovuta anche al fatto che avevi un cazzo molto piccolo, una contingenza che – solo nel tuo caso – si è rivelata una benedizione per l’umanità intera.
Io, purtroppo, non sono messo così male. Ma se per avere la tigna necessaria a contrastare intellettualmente i miei colleghi anatroccoli – quelli che quando parlano di tv parlano solo di format – devo farmi ridurre il pene, sono pronto a farlo. Così, alla peggio, o divento il filosofo continentale del prime time o mi ammazzo.
Costantino della Gherardesca

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