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la riflessione

Scalfari e quell'errore detto con passione che vale più di tante verità scontate

Sergio Belardinelli

Libri come l'autobiografia del fondatore di Repubblica, L'uomo che non credeva in Dio, ci mancheranno. Anche se esprimono un pensiero che non ci convince, anche se non siamo d'accordo

In questi giorni mi sono riletto un libro di Eugenio Scalfari che mi aveva molto colpito: L’uomo che non credeva in Dio. L’ho fatto, lo confesso, infastidito soprattutto dalla retorica suscitata un po’ ovunque dalla sua morte: non per un motivo nobile, dunque, ma addirittura quasi meschino. Eppure, non appena ho iniziato a rileggerlo, mi sono dimenticato completamente del perché avessi deciso di farlo e mi sono ritrovato come ammaliato dal suo modo di affrontare certi temi. Il tema dell’io soprattutto. Fa un certo effetto sentirsi dire che  “l’io non esiste. E’ una superstizione. Oppure una caricatura. Una maschera. Una bandiera. Il pennacchio di un elmo. Un computer depositario di una memoria. Una gabbia. Un capriccioso dittatore. Oppure un prigioniero”. Un’immagine più bella dell’altra per definire qualcosa (meglio sarebbe forse dire qualcuno), l’io, che in effetti sappiamo bene che cosa sia soltanto finché non proviamo a definirlo. “Un computer depositario di una memoria”. Niente di più scontato, verrebbe da dire, specialmente oggi. E invece questa immagine ha evocato nella mia mente qualcosa di inquietante.

Memore di un passo del grande Calderon, ho incominciato a immaginarla in questo modo: “Noi possiamo sognare di essere un computer (Calderon dice un lombrico), ma chi ci dice che quando siamo svegli non siamo in realtà un computer che sogna di essere noi?”. A pensarci bene, potrebbe essere un’ottima pubblicità per un Mac di ultima generazione, oppure un ottimo spunto, per quanto erroneo, per immaginare l’ultima possibilità che abbiamo di conservare la nostra intelligenza, rendendola appunto artificiale, anzi, rendendoci artificiali. Ma siccome non credo che Scalfari gradirebbe queste divagazioni, meglio tornare al suo libro.


Le pagine sul piacere dell’essere nonni e quelle struggenti sulla vita di una persona cara che si spegne destano commozione e gratitudine; il capitolo sul “mestiere crudele” del giornalista è non soltanto molto bello (poteva essere diversamente?), ma, avvolto com’è dal “piacere acre della gara” e da “quello molto più dolce della solidarietà”, evoca una forza spirituale, una volontà, un carattere davvero esemplari; si potrebbe poi dire dell’acutezza delle riflessioni sul  senso dell’essere in Nietzsche e di tanto altro ancora. Un’autobiografia filosofica avvincente, che però ha in sé qualcosa che continua a non convincermi. Parafrasando Gaston Bachelard, mi sembra proprio il caso di dire che una filosofia può essere pessima anche quando le pagine che la raccontano sono belle o addirittura bellissime. Penso in particolare al modo in cui Scalfari pone il problema dell’io di cui ho già detto, il nostro essere “stelle danzanti”, secondo la celebre immagine nicciana.


“Il centro è dappertutto, ovunque vi sia un individuo pensante”, scrive Scalfari. E per molti versi ha ragione. Solo che, oltre a essere “centrati”, gli umani sono anche eccentrici. A differenza degli altri animali, soltanto l’uomo conosce il proprio centro, sa di essere il centro, ne fa esperienza e perciò è costantemente proiettato oltre il proprio campo d’azione, trascendendo così le condizioni biologiche e socio-culturali della sua esistenza. Contrariamente a quanto scrive Scalfari, non credo che questa particolare condizione dell’uomo rispetto a se stesso e a ciò che lo circonda, conduca “in linea retta all’abolizione di ogni assoluto, al relativismo di ogni verità e di ogni asserzione veritativa perché se io guardo il mondo dal mio angolo visuale, ciò che vedo, intuisco, sento e giudico differisce da tutti gli altri possibili angoli visuali”. La mia eccentricità mi apre senz’altro a questa pluralità di “angoli visuali”; non ho difficoltà a riconoscere che essa mi obbliga addirittura a tener conto dell’“altro” e della possibilità che egli veda le cose in modo diverso dal mio. Però, e qui sta il punto, è proprio questa pluralità di opinioni che secondo me presuppone inevitabilmente la verità, altrimenti dovremmo riconoscere che un discorso vale l’altro e, al limite, che non esistano nemmeno discorsi al plurale, visto che sarebbero tra loro incommensurabili. Esiste insomma uno spazio della verità, che non è mai soltanto “per me” e che, proprio perché fa riferimento a un dato di fatto oggettivo, rende possibile anche un confronto sensato tra le nostre diverse prospettive. Scalfari direbbe a questo punto che “la sola verità pensabile – e relativa – si colloca nello sguardo dell’uomo” (di qui la morte di Dio) e che sto semplicemente cercando di tenere in vita un “archetipo” del nostro modo di pensare occidentale mandato irrimediabilmente in frantumi dalla furia speculativa e poetica di Nietzsche. Credo che si sbagli, che lui e Nietzsche si sbaglino entrambi. Siccome però nessun discorso è così insensato da non avere dentro di sé qualcosa di vero e siccome si impara di più da un errore detto bene e con passione che da tante verità scontate, sono convinto che libri come questi ci mancheranno.   

 

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