Ayaan Hirsi Ali, ex parlamentare olandese riparata negli Stati Uniti, sceneggiatrice di "Submission"

Buio in sala

Censurati e dannati, gli ultimi film proibiti parlano tutti di islam

Giulio Meotti

Succede anche in questi giorni a Londra. E i registi vivono minacciati

"Nessuno si aspetta l’Inquisizione spagnola”, dicevano i tre cardinali dei Monty Python con i volti di Michael Palin, Terry Jones e Terry Gilliam. Chi si aspetta più l’Inquisizione? Già… E un anno fa il ministro della Cultura Dario Franceschini non tolse forse la censura di stato dai film? Peccato che ora ci sono la censura e l’autodafé politicamente corretti. Ma soltanto su un argomento: l’islam.

  
Nel 1976, il regista-produttore Moustapha Akkad fu costretto a cambiare il nome della sua epopea islamica da diciassette milioni di dollari – da “Muhammad, Messaggero di Dio” a semplicemente “Il messaggio” – appena 72 ore prima della première londinese. Nato in Siria e formatosi in America, Akkad aveva raccontato la storia di Maometto e della nascita dell’islam senza mostrare il Profeta. Il film venne bandito in tutto il mondo arabo e quando dovette uscire negli Stati Uniti dodici uomini musulmani armati presero 149 ostaggi a Washington DC. Tra le loro richieste c’era la messa al bando del film. “Quando abbiamo girato questo film non pensavamo davvero di essere coinvolti in un grande evento”, avrebbe detto l’attore principale Anthony Quinn.

   
Akkad, che è stato il mentore di Sam Peckinpah, ha immaginato “The Message” come un tributo alla storia dell’islam da vendere al pubblico occidentale. Le riprese erano iniziate nel 1974,  fuori Marrakech, in Marocco, dove avevano costruito una replica della Mecca. La produzione includeva una troupe internazionale di trecento persone e cinquemila comparse.

  
Dieci anni fa, per usare le parole di Repubblica, fu invece “il film ‘blasfemo’ che infiamma Egitto e Libia”, “The innocence of Muslims”. Per registrare le loro obiezioni a un banale trailer su YouTube, diecimila musulmani britannici assediarono la sede di Google nel Regno Unito. E quando una grande azienda privata si trova con migliaia di manifestanti altamente motivati alle sue porte, può prendere la fiaccola e battersi per un principio fondamentale come la libertà di espressione, oppure può optare per una vita più tranquilla. E questo sta succedendo in tutta Europa. Gli viene naturale, visto che già censurano loro stessi i contenuti che ritengono “offensivi”.

  
Poi fu la volta di “Fitna”, il film di Geert Wilders bloccato dai provider americani e con il ministro degli Esteri olandese Hans van den Broek che chiese al suo governo di querelare il deputato e imporre la proibizione alla diffusione del film. “Il paese deve decidere tra libertà di parola e la difesa dei suoi interessi nazionali”, disse van den Broek.

  
Adesso è la volta di “The Lady of Heaven”. Le catene dei cinema del Regno Unito hanno cancellato tutte le proiezioni di questo film sulla figlia di Maometto dopo che le filiali sono state assediate da attivisti musulmani. Cineworld ha preso la decisione di annullare tutte le proiezioni di “The Lady of Heaven” per “garantire la sicurezza del personale e dei clienti”. Il direttore di un cinema è persino uscito fuori dalle sale dove i musulmani protestavano per chiedere scusa. Il video lo mostra mentre si umilia al grido di “Allahu Akbar”. Più di 117.000 persone hanno firmato una petizione per rimuovere il film da tutti i cinema del Regno Unito. Cineworld avrebbe dovuto proiettarlo a Bradford, Birmingham, Bolton, Londra, Glasgow, Sheffield e Wolverhampton. La catena di cinema non voleva finire come l’editore del romanzo “The Jewel of Medina”, la cui casa è stata incendiata a Londra. Quale gestore di cinema, abituato a fare soldi con banali filmetti di azione, vorrebbe intestarsi una battaglia per la libertà di espressione finendo come l’insegnante inglese di Batley costretto a lasciare la propria scuola oggetto di pesanti minacce di morte, reo di aver mostrato in classe le vignette di Charlie Hebdo durante una lezione sulla libertà di espressione, e che ora vive in una “safe house” (come nel film con Denzel Washington, sì) con moglie e i figli a causa del timore di essere uccisi? 

  
Il poster del film di Nicolas Boukhrief “Made in France”, con un kalashnikov sovrapposto alla torre Eiffel, era già nei corridoi della metropolitana di Parigi quando il commando dell’Isis è entrato in azione la notte del 13 novembre 2015. L’uscita del film è stata immediatamente sospesa, con la promessa che la pellicola sarebbe tornata nelle sale a gennaio. Poi la decisione: “Made in France” sarebbe stato disponibile soltanto on demand. Il sito Allociné fece sapere che “nessun cinema a Parigi proietta questo film”. E il manifesto che accompagna la nuova uscita digitale perse il kalashnikov in locandina e la frase premonitrice: “La minaccia viene da dentro”.

  
Nelle stesse ore il film “Salafistes” veniva proiettato con il divieto, voluto dal governo di Manuel Valls, per i minorenni, mentre il ministero dell’Interno aveva chiesto la sua totale “deprogrammazione” (suona dolce e rassicurante). Alcuni sindaci francesi, come a Nantes e Villiers-sur-Marne, avevano appena vietato la proiezione del film “Timbuktu” sui gruppi islamici che si erano impadroniti della città, imponendo un regno di morte e sharia. Nel film c’è una scena con i fanatici della sharia che vogliono imporre a una donna velata di vendere il pesce al mercato, ma indossando i guanti. E lei si ribella.

 
“Siamo tutti Charlie, ma non siamo tutti l’Apostolo”, commentava il settimanale Causeur. Il riferimento è a “L’Apotre” della regista Cheyenne Carron, cacciato dai cinema neanche fosse un pornazzo da quattro soldi “per prevenire il rischio di attacchi” su richiesta della Direction générale de la sécurité intérieure. Perché il film racconta la conversione di un giovane musulmano francese al cattolicesimo. In Francia prima di Carron nessuno aveva mai portato sul grande schermo una storia di conversione al cristianesimo dal Corano, la storia degli “apostati” che nei regimi islamici vengono impiccati alle gru o bruciati vivi. Nel film, la regista Carron racconta la storia di Akim, che studia da imam in una cittadina francese. Una donna viene strangolata da un maghrebino, al grido di “putaine”. Akim è toccato dalla compassione di don Fauré, il prete cattolico fratello della vittima, che resta ad abitare vicino ai genitori dell’assassino senza portare rancore. Akim compie il massimo sacrilegio nell’islam, passando da Allah a Gesù. Formidabile la scena in cui confessa alla madre la propria conversione: “Sei mia madre. Sai tenere un segreto? Voglio diventare cristiano. Il Figlio di Dio tocca il mio cuore”. La madre si mette a ridere, ma i fratelli di preghiera gli cambiano i connotati. Nel film, Carron mette in bocca al protagonista domande scandalose, tipo: “Perché i cristiani accettano i loro fratelli che si convertono all’islam mentre i musulmani non possono accettare coloro che si convertono a Cristo?”.

  
“Submission” non era un bel film, ma l’incubo guardato in faccia. Un’attrice al centro di una stanza spoglia legge le storie di mussulmane vittime di soprusi familiari, rivolgendosi sempre e soltanto a un unico interlocutore. Allah. Il tono della voce è cantilenante. Si narra la vicenda di una donna violentata dallo zio che non viene creduta dai familiari, di una ragazza vittima di abusi da parte del padre e costretta al silenzio, di una donna accucciata in un angolo che si protegge il volto con le mani, di altre donne coperte di lividi. Quando la cinepresa non ne inquadra gli occhi, l’unica parte del corpo che sfugge al velo, è per mostrare gli effetti della sharia sull’altra metà del cielo: botte, occhi gonfi, palandrane scure. Ogni storia ha una sura coranica di riferimento. Usata dal regista, Theo van Gogh, per marchiare la pelle o gli abiti delle attrici. Un versetto ben leggibile sulla schiena dell’adultera, tra una cicatrice e l’altra provocata dalle cento frustate previste dalla legge divina. Un altro ha come sfondo i lividi di una moglie maltrattata. Un altro ancora è proiettato su un burka che sottolinea le forme invece di nasconderle. Ma, dopo lo sgozzamento del suo regista nel cuore di Amsterdam una mattina d’autunno del 2004, quel film sarebbe scomparso dalle televisioni e dai festival del cinema di mezza Europa, che commisero autodafé.

  
Il Festival di Locarno ha subito ritirato il film dopo aver dichiarato la disponibilità a proiettarlo. “Amiamo tutti la libertà di espressione – dichiarò la direttrice del Festival di Locarno, Irene Bignardi –. Ma quando una proiezione può mettere a repentaglio la sicurezza di chi l’ha prodotto e del pubblico, allora io credo che questa sia una priorità da rispettare, perché ci sono cose ancora più importanti del sacrosanto diritto di espressione. Ci sono tanti modi per dibattere dei problemi della donna. Aspettiamo che la situazione si calmi e intanto procediamo nella stessa direzione sempre con uguale coscienza e serietà”. Il 9 novembre, giorno dei funerali di Van Gogh, la rete regionale RTV Noord-Holland annunciò la trasmissione del film per cui un regista era stato assassinato. E lo stesso fece il primo canale pubblico, promettendo la versione integrale alla quale sarebbe seguito dibattito. Su entrambe le emittenti andò in onda soltanto il dibattito. Il film era scomparso. All’International Film Festival di Rotterdam, la più importante manifestazione cinematografica del paese, la retrospettiva su Theo van Gogh con “Submission” fu subito cancellata. Il festival iniziava il 26 gennaio, in concomitanza con l’apertura del processo al suo assassino. E così dopo l’annuncio che avrebbe trasmesso integralmente il film, anche l’emittente padovana Canale Italia ha deciso di non mandarlo più in onda, perché “potrebbe offendere la religione islamica”. Lo ha annunciato il conduttore della trasmissione, Luca Versace, leggendo in diretta un comunicato dell’azienda in cui si sottolinea che Canale Italia è “per il confronto e il dialogo fra tutte le religioni”. Anche Rai 2, nella trasmissione “Punto e a capo”, decise di trasmettere soltanto poche immagini e la clip del film, anziché  l’integrale. Al Parlamento italiano il cortometraggio è stato proiettato in visione privata su iniziativa di un deputato della Lega. E la decisione di vietare la proiezione di “Submission” nella sala stampa dell’Europarlamento, “per ragioni di sicurezza”, ha esposto l’Europa politica al fondato sospetto di una certa viltà culturale.

   
“’Submission’, un film che ho creato con Theo van Gogh, è andato in onda sul canale VPRO finanziato dai contribuenti ad Amsterdam”, ha raccontato questa settimana Ayaan Hirsi Ali su UnHerd parlando di “The Lady of Heaven”. “Avevo estratto dal libro sacro quattro versi esplicitamente misogini, che Theo incise poi sui corpi delle donne che li recitavano. Dopo una serie di minacce, Theo è stato assassinato da un fanatico islamista radicale. Avvertita che sarei stata la prossima, mi sono nascosta. La società olandese ha recepito il messaggio: ‘Submission’ è stato ritirato e da allora non è stato mandato in onda o esibito nulla di critico nei confronti del padre fondatore dell’islam o del libro sacro da qualsiasi testata olandese tradizionale”.

 
Il dibattito in Europa è stato dirottato da una minoranza di musulmani disposta a usare la forza  per terrorizzare la società fino a farla tacere, pianificando attacchi, decapitando  e facendo saltare in aria cose e persone. “La maggior parte dei leader politici e intellettuali in Europa erano spaventati. Pochi hanno espresso difese intransigenti della libertà di parola”.

  
Se il primo “Submission”  non lo trasmette più nessuno, non le televisioni, non i festival di cinema (bisogna andarlo a scovare su internet), il sequel è morto sul nascere, dopo anni di lavoro e di ricco gossip attorno alla pellicola. Si sa che la sceneggiatura avrebbe previsto come tema gli uomini nell’islam: un antisemita, un omosessuale, un bon vivant assimilato all’occidente ricco e secolarizzato, per finire con un aspirante kamikaze. Allah avrebbe parlato direttamente. Ayaan Hirsi Ali ha così rinunciato al sequel del film costato la vita a Van Gogh. Non c’è soltanto un problema di sicurezza altissimo, ma anche un problema di costi: i produttori, il cast e gli attori dovrebbero rimanere anonimi. Il che rende la produzione impossibile. Il produttore del film, Gijs van de Westerlaken, parla di “una specie di autocensura collettiva dettata dalla paura”.
Intanto, in piazza Dam, il cuore di Amsterdam, è possibile comprare un dvd pirata di “Submission”, dentro un involucro nero, senza scritte in copertina. Ultima delle pellicole proibite in un’Europa che dice di non conoscere tabù.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.