Il direttore musicale del teatro alla Scala, Riccardo Chailly, il sovrintendente Dominique Meyer, il sindaco Sala (ANSA/DANIEL DAL ZENNARO)

Perché non possiamo e non dobbiamo fare a meno della musica russa. La versione del Teatro alla Scala

Fabiana Giacomotti

Se anche Milano, l’Italia, l’Europa dovessero cedere alla cancel culture, si preparerebbero tempi simili a quelli in cui il Nazismo distruggeva la cosiddetta “arte degenerata”. La nuova stagione, dalla Prima con il Boris Godunov di Modest Musorgskij al ritorno di Anna Netrebko. Con alcune interessanti novità

“Sì, c’è molta musica russa nella prossima stagione, e ci sono anche molti artisti delle ex repubbliche sovietiche, e anche artisti che hanno ceduto alla vanità di accettare premi oggi scomodi in tempi non sospetti. Quando è stato il momento, con il sindaco Beppe Sala ho chiesto al maestro Gergiev di prendere posizione a favore della pace, non ha voluto farlo, ci è molto dispiaciuto anche se sentivamo di aver compiuto il nostro dovere e abbiamo rinunciato alla sua presenza. Ma sono stato felicissimo di riaccogliere Anna Netrebko qui alla Scala l’altra settimana, il pubblico era tutto in piedi. E non ho nessuna intenzione di rinnegare l’apporto della Russia alla musica mondiale, alla sensibilità di un artista russo nell’interpretare il repertorio della sua cultura o di dovermi nascondere per leggere Pushkin”. E alla fine anche il controllatissimo, mellifluo sovrintendente del Teatro alla Scala Dominique Meyer alzò la voce (“Se c’è il coraggio, tutto viene meglio”, ammette perfino a un certo punto). Fa un po’ specie vederlo con l’aria boudeuse, annoiata e spazientita, lui che ha imparato la diplomazia negli anni di Mitterrand, riprendere la stampa alla presentazione della stagione 2022-2023 nel Ridotto Toscanini.

  

Le sorprese slave del prossimo autunno, a dire il vero, sono più d’una, e chi credeva di dover caricare di domande e richieste di “spiegazioni” la sola Prima rappresentazione con il Boris Godunov di Modest Musorgskij (ovviamente deciso tre anni fa, chi crede che i programmi si facciano e si disfino in tre mesi deve assomigliare allo spettatore medio della serata di ieri per i 60 anni del Salone del Mobile che domandava sinceramente stupito “se sa già tutto di questa musica perché è tornata a vederlo”, vivaverdi sempre viva) invece si è trovato un programma ricco di presenze slave sia nei titoli sia nei cantanti scelti: “Non è facile trovare un buon Lindorf”, sbuffava all’osservazione sulla presenza del basso Ildar Abdrazakov nei Contes d’Hoffmann, aspettando che qualche furbacchione chiedesse anche il perché del progetto attorno all’opera coreografica e ai disegni di Vaslav Nijinsky, anima dei Ballet Russes, cioè di un emigrato di pregio di un secolo fa. Rincara Riccardo Chailly, ripercorrendo il lungo percorso e gli intensi legami del Boris, opera maestosa e sconvolgente sulla brutalità e la solitudine del potere, con la Scala, dove avvenne la prima rappresentazione italiana, nel 1909, e si iniziò a studiarne le diverse versioni dagli anni Settanta di Claudio Abbado (assistente lo stesso Chailly) a oggi.

  

Il 7 dicembre verrà messa in scena, con la regia di Kasper Holten e i costumi di Ida Marie Ellekilde, la prima versione che, lo scriviamo per i pol. corr., subì le censure zariste. Anche Chailly ribadisce di non avere alcuna intenzione di soprassedere agli Stravinskij o alle altre partiture più o meno “russe” che porterà in scena anche questa estate, a Lucerna. “E poi, speriamo che per il 7 dicembre il conflitto sia finito”, lancia il sindaco Beppe Sala, conscio che se anche Milano, l’Italia, l’Europa dovessero cedere alla cancel culture, si preparerebbero tempi similari a quelli in cui il Nazismo distruggeva, almeno ufficialmente, la cosiddetta “arte degenerata”. 

  

Mentre la stampa percorre con un impegno degno di miglior causa la lista dei nomi (sarà russo o kazako questo?), vanno segnalate alcune interessanti novità, prima fra tutte la deliziosa “Li zite ‘ngalera” di Leonardo Vinci, prima rappresentazione al Teatro dei Fiorentini di Napoli nel 1722 e nuovo tentativo di assuefazione del pubblico del vivaverdi al teatro barocco dopo un lontano Paisiello diretto da Muti e la recente Calisto di Cavalli, e la prima scaligera della Rusalka di Dvorak (davvero non è mai stata rappresentata a Milano?). Vi sono anche due semi-riprese o pseudo-prime (Lucia di Lammermoor per la regia di Yannis Kokkos che avrebbe dovuto inaugurare la stagione poi quasi annullata per il Covid e la Salome diretta da Michieletto, meraviglia vista solo in televisione), ed entrambe, insieme con qualche altra rappresentazione, sono all’origine della polemica in atto alla Scala con i sindacati per il rinnovo del contratto. Oltre a un adeguamento dei nuovi salari all’aumento del costo della vita, tema diremmo comprensibile e che è anche all’origine di un deciso abbassamento dei costi degli spettacoli e all’aumento dell’”offerta famiglie” e per gli “under 35”, scelta molto sostenuta da Sala (no, la “Prima” resta al prezzo proibitivo di sempre, e giustamente, per compensare l’ampliamento delle tariffe speciali), c’è quello della richiesta di un aumento dell’organico, non giustificato però dal numero di nuove rappresentazioni, inferiore in realtà a quelle dell’epoca Pereira.

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