Il ricordo

Cosa resta di Alberto Savinio, sommo dilettante di scrittura, pittura e musica

Matteo Marchesini

Lo scrittore, di cui ricorrono i settant’anni dalla morte, appartiene a quella generazione degli anni 90 che è sempre in anticipo o in ritardo sulla Storia

Sono caduti i settant’anni dalla morte di Alberto Savinio: quindi ora, per i diritti, liberi tutti. Vedremo se gli editori sapranno proporci una nuova immagine di questo sommo dilettante della scrittura, della pittura e della musica. Il quale per la precisione morì il 5 maggio, come capita con fatalità napoleonica ai personaggi di un suo racconto. Chissà cosa avrebbe detto di questo scherzo della sorte, che gli ha imposto la “risoluzione suprema” dei problemi umani in un giorno così solenne, così “pompiere”. Savinio ricavava delle sorprendenti teorie – sempre corsive, ironiche, provvisorie – dalle coincidenze del destino. E chi si accosta alla sua biografia nota un altro fatto curioso. Gli scritti di questo precursore sono spesso comparsi sulle riviste che li ospitavano un po’ come la nottola della sua ateniese Minerva, ovvero sul far del crepuscolo: “Les soirées de Paris” di Apollinaire e “La Voce” di De Robertis furono travolte dalla Grande guerra subito dopo il suo esordio; nel ’38, un suo saggio accompagnò l’ultimo catalogo della Galleria La Cometa, che poi si arrese alle vessazioni fasciste; e nel ’39, per chiudere il settimanale Omnibus, il regime prese a pretesto un pezzo saviniano dove la morte di Leopardi veniva irriverentemente associata a una “cacarella” da sorbetto. Savinio appartiene a quella generazione degli anni 90 che è sempre in anticipo o in ritardo sulla Storia.
 

Nel suo primo libro, “Hermaphrodito”, liquida ludicamente le avanguardie futuriste con uno stile arcimboldesco che deve molto a Dossi. A inizio anni ’20 tenta una narrativa gaddiana ante litteram, lavorando su una gravitas parodica che fa cozzare perifrasi altisonanti e situazioni comicamente prosaiche. Solo a fine anni 30 nasce il Savinio proverbialmente leggero, sciolto, delizioso. E come spiega oggi Lucilla Lijoi nel suo ottimo studio “Il sognatore sveglio” (Mimesis), questo Savinio nasce quando s’incrinano i suoi rapporti con la cultura fascista, che del resto aveva spesso celebrato con un’enfasi improbabile, e troppo facilmente rovesciabile in umorismo. Per un autore che col potere ha avuto solo vincoli puerili – gli ‘agganci’ e le palinodie di superficie gli sono serviti per garantire uno spazio pubblico a un’opera temerariamente autonoma – è stato decisivo l’incidente privato del sorbetto leopardiano, che gli è costato l’esilio di un anno dai giornali. Ma a noi piace notare un’altra coincidenza. Come Gadda, che dovette scrollarsi di dosso una ben più radicale complicità col regime, Savinio termina un apprendistato lungo e dispersivo solo dopo la morte di una madre ingombrante (che nei suoi libri torna di continuo come figura incestuosa, permalosa, assassina). Questi due autori iperpudichi, ma ipnotizzati dai segreti di sesso e famiglia, iniziano allora l’ascesa verso la gloria con testi molto autobiografici, e dedicati appunto all’influenza materna: nel ’36 muore Adele Lehr, e Carlo Emilio scrive “La cognizione del dolore”; pochi mesi dopo muore Gemma Cervetto, e con “Tragedia dell’infanzia” Alberto apre la serie delle sue opere maggiori. Entrambi titillano le etimologie, e traggono effetti grotteschi dalle macchiette commendatoriali ancora alonate dalla Belle Epoque. Solo che Savinio sceglie una prosa rapida e trasparente, che anziché aggrovigliarsi intorno alle teorie le riduce a un’attrezzeria tascabile.
 

Quando capisce che le sue invenzioni hanno bisogno di un supporto, reinventa il genere biografico, spremendo il senso delle vite che racconta da un singolo aneddoto o tratto fisiognomico, e così ricomponendo quel ritratto unitario dell’uomo a cui, secondo Fumaroli, i moderni hanno sciaguratamente rinunciato per perdersi nei meandri di psicologia e sociologia. Come un Nietzsche giocoso, Savinio mitizza le vicende proprie e altrui, tratta la verità come una favola che va adattata ai bisogni fisiologici di ognuno, e racconta le peripezie intellettuali coi colpi di scena di un romanzo d’avventura. Altrettanto giocosamente trae da Weininger il metodo delle dicotomie brutali, che nel loro stesso eccesso di semplificazione trovano un contravveleno ironico, e che come nota la Lijoi cambiano segno a seconda del clima storico: mente mediterranea contro mente faustiana, civiltà copernicana contro civiltà tolemaica, logica latina contro surrealismo etrusco… Sì, perché il surrealismo è per Savinio una categoria metastorica, e ingloba perfino Topolino, “la più umana fra le creature poetiche, la più benefica, la più ‘civile’”. Civile è anche il filone surrealista che l’autore oppone a quello di Breton, troppo esaltato dall’inconscio. Per Savinio, poeta del concetto, vale infatti l’arte che dà forma, che porta a coscienza, che risolve il mistero in mito razionale. Per produrla non bisogna vergognarsi di sé, cioè truccarsi come fanno gli esteti e i dittatori, che mascherano retoricamente la realtà, e per rimuoverla arrivano a cancellarla dal mondo. Al contrario di quel che avviene di solito negli scrittori del Novecento, in Savinio la vita politica è metafora di quella artistica e famigliare: “Infanzia – onda continua di rivoluzione (…) stroncata dai ‘grandi’, questi reazionari”, dice in “Tragedia dell’infanzia”. E in una voce della “Nuova enciclopedia” sul “Silenzio nel matrimonio”, permeata dall’idea weiningeriana dell’amore come impurità, Savinio risponde alla moglie che si lamenta perché non dialogano più paragonando il loro stato a quello dei complici dopo un delitto. Male sarebbe chiacchierare molto: significherebbe tornare a quel periodo di seduzione, cioè di inganno, in cui “parlavo per le ragioni medesime per le quali Camillo Benso di Cavour mandò i soldati piemontesi alla guerra di Crimea: per farmi conoscere”. Ma nello stesso libro, concepito durante la seconda guerra mondiale, c’è anche un diretto manifesto ideologico sull’Europa come nemica naturale del totalitarismo, che oggi, tra dibattiti geopolitici e politiche dell’identità, non si legge senza un certo malinconico sollievo: “L’Europa capisce, quando è ‘europea’, che nessuna idea è ‘prima’” vi scrive Savinio. E poco dopo, tornando sulla figura nel cui segno si era aperta la sua attività letteraria: “Al solo uomo europeo è consentita una dialettica sessuale; una democrazia sessuale; un liberalismo sessuale un dilettantismo sessuale. / Sui campi dei non europei collinosi di mammelle, domina ritto un fallo gigantesco, fiancheggiato da due baffi, simili a due sciabole nere. Nel mezzo dell’Europa, su un divano civilmente magro, circondato di apparecchi comodi e silenziosi, sotto una luce indiretta e diffusa, dorme Ermafrodito”.

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