FACCE DISPARI

Cettina Caliò, la poesia e l'amore per Sergio Claudio Perroni

Francesco Palmieri

"Quando scrivo mi sembra di avere più senso, di respirare meglio", ci dice la poetessa catanese. Il linguaggio politicamente corretto? "Mi fa paura perché manifesta la stupidità di quelli che una volta si chiamavano opinion leader"

Quando il grillo emise una specie di rantolo, perché la sua ugola si rifiutava di far musica “senza lo spartito di qualche raggio di luna”, spiegò che “queste sono tutte le note che ho accumulato senza mai poterle sfogare”. “Finiranno per strozzarmi”, disse, “se non riesco a farne uscire almeno un paio”. Come il grillo, un poeta deve “esprimere e toccare i suoi pensieri”, non se li può tenere in gola. Deve tradurli nelle parole giuste, che normalmente se ne stanno per proprio conto nell’insolenza del disordine prestabilito. Facendo tuttavia attenzione, perché “anche tra le parole c’è sempre l’idiota che vuole fare di testa sua”. I virgolettati di quassù sono rubati ai libri di Sergio Claudio Perroni, scrittore, editor e traduttore di fama che non sta più qui anche se forse è vero, sempre citandolo, che “non muore nessuno”. Sono rubati con licenza perdonabile perché introducono la poesia di Cettina Caliò, catanese, traduttrice, che fu sposa di Perroni e qualcosa di più fino al congedo di questi il 25 maggio 2019 (“a volte andarsene – lui aveva chiarito – è solo un modo più efficace per restare”).

 

Come si diventa poeta?

Io per la necessità che avevo da bambina, e ho tuttora, di ‘vedere’ i miei pensieri. Per il bisogno di toccare le parole, che sono lo strumento con cui prendere le coordinate di sé stessi. Per il bisogno di raccontare ciò che si vede facendone visione da trasmettere a tutti tramite una comunanza del sentire. In breve: quando scrivo mi sembra di avere più senso, di respirare meglio.

 

Come il grillo della fiaba di Perroni.

La scrittura è farmaco, è un medicamento.

 

Come lavorare sulle parole “idiote” che vogliono andarsene di qua e di là di testa propria?

Scrivere è fatica, soprattutto se decidi di porgere le tue parole agli altri. Soprattutto se assumono la forma della poesia, che è anche senso e suono. La fatica consiste nella ricerca di questa possibilità, nella restituzione di un senso evocativo anche a vocaboli sviliti dall’uso quotidiano, che ne diminuisce il valore.

 

L’espressione poetica è più o meno difficile di un tempo?

Più difficile perché nel mondo si scrive tantissimo, soprattutto sui social. E la gente legge sempre peggio, utilizza male le parole o ne dimentica il significato, come nel famoso caso dell’avverbio ‘piuttosto’. O ricorre a parole inglesi usate in modo scorretto, spesso mal pronunciate, o assorbe male informazioni vere: quanto spesso capita che si commenti un articolo in rete avendo letto solo l’occhiello. La poesia è anche un modo per richiamare gli altri alla bellezza della nostra lingua e all’espressione di pensieri non raffazzonati.

 

Quanto pesa su un poeta il totem del linguaggio politicamente corretto?

È un’atrocità che disturba persino i testi delle favole. Mi fa paura perché manifesta la stupidità di quelli che una volta si chiamavano opinion leader e ora sono definiti con l’orrenda parola di influencer. Mi chiedo come mai non abbiano di meglio da fare. Per non parlare della recente censura a Dostoevskij perché è russo. Quando lo lessi per la prima volta, tra diciotto e venticinque anni, entrai in un mondo popolato di persone con cui mi confrontavo perché nei classici dell’800 russo, o francese, c’è una capacità di descrizione dell’animo umano di rarità e bellezza che si ritrovano difficilmente tra i contemporanei. Pochi autori viventi m’incuriosiscono: quando li leggi sembra tutto già detto e sentito, però detto e sentito meglio.

 

Quali poeti ha letto di più?

I primi oltre quelli di scuola furono Prévert e Neruda. Oggi mi sembrano un po’ furbastri, capisco cioè che avevano anche voglia di vendere i loro libri. Non saprei fare la classifica delle preferenze, ma amo Julio Cortázar, Ingeborg Bachmann, Antonia Pozzi, Else Lasker-Schüler, Alejandra Pizarnik.

 

Sergio Claudio Perroni: viene a volte nei suoi sogni?

L’assenza è una presenza fortissima: lui è nella mia testa. Ho imparato che la mancanza di una persona con cui hai avuto il privilegio della reciproca appartenenza non si avverte tanto fisicamente, quanto per la scomparsa di alcune cose che c’erano solo perché erano le nostre. Però, quando riesci a venire a patti col dolore, la persona che non c’è più diventa una presenza importante perché te la porti dentro. Ed è come s’io fossi doppia: guardo le cose due volte, una per me l’altra per lui.

 

Cito dalla sua raccolta ‘Di tu in noi’, uscita l’anno scorso per La nave di Teseo: “Tu non ci sei/ e mi cade addosso/ il cielo che fu”. Qual era il vostro cielo?

Ci conoscemmo a Naxos una sera che nessuno di noi due voleva essere lì. Mi risultò antipatico, poi cominciammo a scriverci, a vederci. Ci siamo dati per tanto tempo il ‘lei’, scoprendo pian piano che ci emozionavano le stesse cose. Considero un privilegio la nostra vita insieme: era un uomo profondamente sensibile, intelligente, che faticava ad aderire alla realtà perché era tra coloro che hanno bisogno di vivere a una certa quota. E se non possono, preferiscono tirarsi fuori dal gioco. Farò di tutto perché resti, anche con le sue opere.

 

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