La partecipazione con vittoria dei Jalisse al Festival di Sanremo del 1997 (foto Olycom)

il foglio del weekend

Scomparsi e ritrovati, com'è cinico il pendolo degli artisti (anche a Sanremo)

Francesco Palmieri

I Jalisse di “Fiumi di parole” sono solo un esempio dei molti dimenticati del Festival. E poi Aldo Busi in cerca di editore e gli scrittori riemersi post mortem, fino ai registi troppo prolifici, e quindi scomparsi

Scomparsi per sempre. Scomparsi e ritrovati una volta per tutte. Scomparsi e ritrovati periodicamente, come i campioni olimpici degli sport minori, di cui ci si ricorda fino a un anno dopo la medaglia e quindi si dimenticano per altri tre. Forse il destino tra tutti peggiore è finire in quel vago limbo certificato sul web dalle domande: “che fine ha fatto?” o “che cosa fa oggi?”, attestazioni di una morte in vita che quando non dipende da una scelta volontaria risponde alla sfiga, al mutato gusto dei tempi, a una definitiva pigrizia, a ostracismi politici o semplicemente al fatto che quanto si doveva dire si è detto. Quanto si doveva scrivere si è scritto.

Ci sono gli scomparsi tranquilli e gli scomparsi riottosi. I primi confidano nel tempo circolare, pensando che nel prossimo ciclo faranno un altro giro; i secondi temono un tempo lineare, messianico, e vedendo che la fama si allontana fino a sembrare un puntino all’orizzonte, le lanciano il de profundis clamavi ad te. Cosa avranno mai fatto i Jalisse, dopo aver vinto un Festival di Sanremo nel 1997, per non metterci mai più piede? Quest’anno, al venticinquesimo catenaccio, hanno fatto volare gli stracci. Possibile che ogni canzone successiva a Fiumi di parole della coppia artistico-matrimoniale Fabio Ricci-Alessandra Drusian sia stata bocciata alla selezione? Alla fine si sono beccati soltanto una piccata risposta di Amadeus e lo sfottò di Fiorello, ma chi può dire se non abbiano proprio così, dopo un quarto di secolo, trovato la chiave per una rinnovata popolarità nel paradosso della scomparsa lamentata. Si sono forse notati di più perché non c’erano e per la bocciatura del brano, che aveva un titolo atto alla circostanza: E’ proprio questo quello che ci manca. (Non si può escludere, comunque, l’ipotesi scherzosa di Fiorello, ossia che il duo Ricci-Drusian si sfoghi coi vudù su un pupazzetto di Amadeus).

Più chiassosa nel mondo della canzone, e per forza di cose più frivola, l’inane lotta contro la scomparsa o per un meritato recupero si combatte con incostante accanimento anche nel cinema, nel teatro e in letteratura. Il mese scorso Massimiliano Parente ha lanciato una colletta per consentire ad Aldo Busi di tornare in libreria con un fluviale romanzo di circa novecento pagine, intitolato Seminario post mortem. Nessun editore vuol più pubblicare colui che Parente giudica “il nostro più grande scrittore vivente”, “mica uno dei timbratori di cartellini narrativi della narrativa italiana che fanno a gara per farsi dare il famoso premio”. Una colletta tra i lettori smonterebbe almeno una ragione, non secondaria, dei dinieghi editoriali a Busi: la richiesta di un anticipo troppo salato. Ma forse oggi è meno facile di un tempo vivere la terza fase arbasiniana di un autore, quella di ‘venerato maestro’, che segue ai noti stadi di ‘brillante promessa’ e ‘solito stronzo’. Meno facile anche in famiglia, perché gli eredi di Busi hanno già espresso rotonda indifferenza rispetto al lascito del romanzo.
Ridiscendendo dalla letteratura a Sanremo, la terza fase arbasiniana la vivono benissimo artisti come Massimo Ranieri e Gianni Morandi, che pur avendo attraversato in carriera periodi ripetuti di minore popolarità, non sono mai caduti nel buco nero della scomparsa, tutt’al più in uno stato momentaneo di eclissi giustificato dalla longevità professionale. E’ il minimo se si pensa che l’esordio sanremese di Ranieri rimonta al 1968, sotto la presidenza della Repubblica di Giuseppe Saragat; la sua vittoria con Perdere l’amore al 1988, presidente Francesco Cossiga; il suo ritorno di questa settimana all’indomani del Mattarella bis. Schiere di vincitori e di perdenti, di scalatori di hit parade e cantautori, di inclusi e di Jalisse si sono succedute in questi cinquantaquattro anni. E’ il caso di dire, con le parole dell’altro intramontabile Morandi, che solo “uno su mille ce la fa” senza nemmeno attraversare il limbo dove devi restare fermo non si sa quanti giri, come è successo a Orietta Berti ormai solidamente ripescata.

Ci sarà un segreto che resiste alla sfiga, ai gusti generazionali, ai direttori artistici e agli addetti alla cultura: “Non so se sia un segreto, ma il mio è stato molto semplice. Mantenere un cliché che vada al di là dei cambiamenti e rispettare il proprio pubblico. Non bisogna proporre canzoni usa e getta inseguendo le mode, ma presentare brani che durino nel tempo”, risponde Peppino di Capri, quasi il solo che possa considerarsi un veterano della musica leggera al confronto con Ranieri e Morandi. Assente da Sanremo, dove ha partecipato per quindici edizioni vincendone un paio, all’autore di Champagne e Roberta questa kermesse non manca più e il suo perché non fa una grinza: “Il meccanismo della competizione è un freno. Farebbe un po’ male, dopo sessantaquattro anni di carriera, essere scavalcato da qualcuno che magari ha appena un disco all’attivo. Sanremo resta comunque la trasmissione televisiva più forte dell’anno perché l’Italia è un Paese di grande creatività musicale complessiva. Musica con la ‘emme’ maiuscola, che fa parecchia invidia agli altri: nel mondo un patrimonio come il nostro se lo sognano soltanto”.

Un altro segreto per durare s’ispira a quel famoso brano sanremese del ’67 firmato dai The Rokes e assurto a massima di vita (bella finché non si esagera): “Bisogna saper perdere! Non sempre si può vincere”. Sembra che l’abbia fatta sua, nel rapporto con il successo, un’altra big di questo Sanremo, “perché il mio non è un successo durevole, il mio è un continuo stop-ricomincio-vado-vengo-rifamo-rivedemo… c’è il sole e non c’è il sole… vediamo cosa accade…”, confida Donatella Rettore, che ha cantato il brano Chimica in duo con Ditonellapiaga (alias della romana Margherita Carducci). “Il fatto è che non si capisce più niente nel mondo della musica… E’ un pateracchio, un pasticcio, però l’importante è andare avanti con positività”, aggiunge la cantautrice che toccò le vette della popolarità con Splendido splendente, ma senza congelarsi in un passato mitico proprio quel brano ripropose nella serata delle cover dell’edizione scorsa, assieme alla Rappresentante di Lista e ventisette anni dopo la sua ultima apparizione al Teatro Ariston.

Male non fanno, per cavalcare meglio la Ruota instabile della Fortuna, i suggerimenti dall’apparenza divertita ma piuttosto seri impartiti in rima da Vincenzo Mollica, che fu già celebrato a Sanremo e a propria volta mette in guardia: “Quando ti cominciano a celebrare / hai solo due strade: sparire o scappare”. Può far pendant con un altro suo aforisma: “La tristezza di chi vive solo di memoria / è simile a quella di chi si nutre / solo di cicoria”. L’ossessione di ricordare e quella di essere ricordati possono costituire, nei rispettivi eccessi, due pretese intossicanti che rubano al tempo l’arte della rettifica. E’ il tempo che corregge le classifiche, facendo sì che Vita spericolata di Vasco Rossi, castigata al penultimo posto nel Sanremo 1983, sia tuttora un classico epocale mentre chi ricorda ormai il brano vincitore di quell’anno, Sarà quel che sarà di Tiziana Rivale. Quanti libri rimasti indietro nelle classifiche, o film dai magri incassi e stroncati dalla critica si sono presi una rivincita con gli anni o i decenni. Alla fine, gli scomparsi meravigliosi vengono ritrovati malgrado il fastidioso dettaglio di essere morti prima di saperlo. All’opposto, molti successi esagerati si sono sbriciolati nel giro di quattro stagioni, o appena dopo la morte degli autori col benevolo dettaglio di illuderli immortali. E se suscitano ancora l’attenzione della critica, c’è sempre il rischio che spuntino frammenti scartati o diari imbarazzanti. Scatta insomma la regola che individuò Giuseppe Pontiggia con scientifica ironia: “Pochi sono gli scrittori che sanno invecchiare, ma ancora meno quelli che sanno essere morti”. Non si può dargli torto, quando si pensa agli inediti postumi con cui si raschiano talvolta i più reconditi cassetti, laddove l’autore “anche nel carattere appare mutato. Se prima era calibrato e sapiente nell’uso delle parole, nell’aldilà”, notava Pontiggia, “svela una corrività singolare, una fretta che risulta in contraddizione con i ritmi dell’eternità. A volte non riesce neppure a completare una frase, ma la mano amorosa della vedova soccorre provvidenziale”. 

Chissà invece che fine hanno fatto tanti nomi considerati un tempo irresistibili, i cui armadi restano pieni di carte o definitivamente trascurati. Un paio tra i numerosi esempi: “Quando a Napoli mi ritrovo fra le bancarelle di Port’Alba, scatto la foto di tutti i libri di Alberto Bevilacqua e di Susanna Agnelli, che nessuno legge più”, dice Marco Ciriello, che ha superato quota 700 recensioni in carriera. “Bevilacqua, comunque un gigante rispetto a certi autori oggi in auge, si rivela effimero rispetto a Bianciardi, a Tondelli o al quasi dimenticato Tobino. Certo conosceva benissimo l’architettura del romanzo, ma  accarezzava il suo tempo, il mondo che intercettava di una media borghesia cui non richiedeva sforzo, e in più essendo sempre presente in televisione risultava perfetto per un certo tipo di pubblico”, prosegue Ciriello. “In questo modo più che lettori si accumulano utenti i quali s’allacciano all’Enel, all’acqua e a Bevilacqua. Poi, quando l’autore scompare, termina di erogare il suo servizio e loro passano a un altro gestore dell’intrattenimento. Invece, anche oggi se un ragazzino prende in mano La vita agra impazzisce: Bianciardi ancora ci scavalca perché era in connessione col futuro. Al contrario di una Susanna Agnelli, che allenava i lettori al rimpianto. Anche un grande come Pasolini lo ha fatto, ma a lui il rimpianto serviva per contestare uno status quo, mentre quello della Agnelli fu esercizio da salotto, come il tè del pomeriggio. Purtroppo questa narrativa ne ha generata molta dell’attuale, che sembra lo svolgimento dei temi scolastici ‘raccontami la tua famiglia’. Una narrativa col certificato medico, perché un parente malato c’è sempre, e col certificato catastale, perché generalmente qualche casa contesa o ereditata è presente nel racconto”.

Al rovescio c’è la schiera degli scrittori italiani scomparsi e riemersi o a cui nemmeno fu data, finché vivi, la chance di apparire. Al posto d’onore forse il più conosciuto, Guido Morselli. L’autore di Dissipatio H.G. inedito in vita e morto suicida nel ’73, “è divenuto l’emblema”, diceva Pontiggia, dello “Scrittore Postumo”. “Qualcuno – aggiunse sarcastico – glielo ha persino imputato a colpa, quasi avesse voluto usufruire, dopo la morte, dei suoi benefici”. (Per non dire, tra i postumi dall’esito meno tragico, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. O di Goliarda Sapienza, che morì quasi impubblicata). Numerosi gli autori di successo caduti in penombra alla morte e riscoperti dopo un periodo più o meno lungo, anche se il ritorno sul mercato non restituirà mai il fulgore di una volta quando era inestricabilmente collegato a un’epoca. E’ il caso dello scrittore e sceneggiatore siciliano Ercole Patti, riportato dalle bancarelle in libreria dopo quarantaquattro anni di quasi irreperibilità grazie a La nave di Teseo, che ne ha ripubblicato l’opera omnia nel 2019. Riemerge dal buio anche Ligio Zanini, il maggior poeta istriano del Novecento, di cui l’editore vicentino Ronzani ha appena ristampato il romanzo Martin Muma, che fu giudicato “un libro unico” da Mario Rigoni Stern. C’è poi un’altra fila di ritrovati, quelli che con un romanzo divennero “un caso letterario” e quindi si eclissarono per le più svariate ragioni. E’ accaduto a Gianfranco Calligarich, triestino nato ad Asmara, oggi ottantatreenne. Fece molto parlare di sé nel 1973 con L’ultima estate in città, uscito per Garzanti e che non ebbe un seguito anche per scelta dell’autore, il quale sarebbe tornato alla narrativa solo molto più tardi, nei primi anni Duemila, dopo una cospicua parentesi come sceneggiatore. Quel romanzo d’esordio che tanto piacque a Natalia Ginzburg, facendo un passaggio per Aragno nel 2010, è stato ripubblicato da Bompiani nel 2016 e ristampato l’estate scorsa, oltre a essere tradotto in inglese come Last Summer in the City e successivamente in tedesco.

Scomparso e ritrovato è il giornalista e scrittore napoletano Nicola Pugliese, autore di un unico romanzo, Malacqua, uscito per Einaudi nel ’77 e ristampato nel ’78, che per disattenzione della critica e ritrosia dell’autore venne ripubblicato soltanto nel 2013, un anno dopo la sua morte, da Tullio Pironti. Per decenni i lettori si passarono in fotocopia quel libro introvabile, ormai riconosciuto come un capolavoro del secondo Novecento, mentre la fama di Pugliese si spandeva con l’efficacia dell’assenza: il “Salinger napoletano” si era ritirato a vivere ad Avella, un paesino dell’Irpinia, incurante dei rapporti con gli ambienti letterari cui preferì decisamente le tranquille conversazioni con gli amici al bar. Avrebbe pubblicato soltanto un altro esile libro di racconti, La Nave Nera, malgrado le insistenze degli ammiratori. Tradotto dopo la sua morte in inglese, francese e tedesco, Malacqua tornerà in libreria questa primavera, recuperato da Bompiani, per raccontare di una Napoli inusuale: non il paese del sole ma di una pioggia che batte quattro giorni ininterrotta nell’attesa di un ”Accadimento straordinario”.

C’è chi sale e chi scende nei volgimenti della Rota Fortunae, per cui Michele Prisco, vincitore di uno Strega e prolifico romanziere, manca da parecchio tempo in libreria, malgrado le iniziative con cui tra Roma e Napoli sia stato celebrato il centenario della sua nascita nel 2021. Eclissi temporanea o definitiva chissà. Il miglior critico è il tempo, che per esempio non fu clemente in vita con Francesco Mastriani, romanziere napoletano con il torto di essere troppo prolifico per necessità di sopravvivenza, ma che centotrent’anni dopo la morte è reperibile nelle librerie con la ristampa dei suoi romanzi. I più sono usciti per Guida Editori con prospettive di inesauribilità futura. Lui ne produsse, infaticabile, ben oltre il centinaio.

Il peccato della prolificità, perdonabile per chi preferisce pagare un tributo alla fama piuttosto che alla fame, spesso ha contribuito a decretare poi il contrappasso della scomparsa o la sottovalutazione. “Una volta Antonio Margheriti, che era un uomo ironico, mi disse: ‘Se avessi fatto trenta film in meno sarei più considerato’”, ricorda il critico cinematografico Giona Nazzaro, direttore artistico del Locarno Film Festival. Medesimo peccato sconta Joe D’Amato, “che non osiamo dire sia stato un genio ma senz’altro una ventina di suoi film basterebbero a fare la cinematografia di qualunque altro regista”. Il cinema offre una vasta selezione di autori che hanno scontato un lungo purgatorio prima di essere riconosciuti per la loro importanza. “In Italia la critica ha sofferto il monopolio del pensiero marxista, dello strutturalismo. Chi non si allineava era chiamato a risponderne. Mi ricordo le difficoltà che incontrai per pubblicare sulla rivista Cineforum una lunga scheda su David Lynch, sulla cui grandezza oggi nessuno più discute”, sottolinea Nazzaro, “o quando mi dovetti giustificare nella redazione di Cinemasessanta perché ritenevo un film di Spielberg più interessante di uno di Wenders. Ora Scarface di Brian De Palma è considerato una grande pellicola, ma a quell’epoca no. Per non parlare di Sergio Leone: è considerato un intoccabile, ma ricordiamoci che non è sempre stato così. E che anche autori come Florestano Vancini e Valerio Zurlini sono stati sì rispettati, ma non venivano considerati al rango dei grandi. Persino Giuliano Montaldo è stato visto quasi più come un cineasta di consumo”.

Nel cinema italiano, Nazzaro intravede tra le file dei possibili scomparsi Luigi Magni e Giuseppe Patroni Griffi, mentre auspica la riscoperta presso il vasto pubblico di Alberto Lattuada, cui ha dedicato una retrospettiva a Locarno e che ha pagato il paradosso del raffinato eclettismo per cui finì a occuparsi di architettura, fotografia, arte, letteratura russa: “Attraversando tutta la storia culturale del Novecento senza farsi mai intrappolare dai manierismi, ma sempre mosso da un’estrema curiosità”.

Eppure alla fine, che si tratti di canzoni, di film o romanzi, chissà se è sempre giusto mettersi dalla parte degli autori. Chi sta dall’altro lato e legge, ascolta, vede, lui da solo – come diceva Massimo Troisi – mentre sono milioni a scrivere, sceneggiare e cantare, deve difendersi con il sacrosanto diritto di dimenticare. Una valvola di salvezza per non fare la fine del personaggio borgesiano Ireneo Funes, condannato dopo una caduta da cavallo a ricordarsi tutto. Chissà se non sia meglio rimandare la lettura di un libro imperdibile, o la visione di un film irrinunciabile, con la disposizione d’animo opposta a quella di Funes, che risponde a un’illusione diffusa e salutare: “Il fatto è che viviamo ritardando tutto il ritardabile; forse sappiamo tutti profondamente che siamo immortali e che, presto o tardi, ogni uomo farà tutte le cose e saprà tuttLa bulimica sorte dell’ipermnesia, stavolta non per caduta da cavallo ma dopo un fulmine che lo colpì davanti alla stazione di Bucarest, toccò al mediocre professore Dominic Matei, protagonista del romanzo di Mircea Eliade Un’altra giovinezza. Ora avrebbe potuto ricordare tutto ciò che aveva imparato e dimenticato nella vita senza più alcuna difficoltà, persino varie complesse lingue morte. Ricoverato in ospedale, il professore “scriveva ogni genere di cose: i libri dei quali si ricordava (e amava indicarne l’edizione, l’anno di pubblicazione e quello in cui li aveva letti per la prima volta, al fine di poter riscontrare questo prodigioso recupero della memoria), versi in tutte le lingue che aveva appreso, esercizi algebrici e alcuni sogni che riteneva significativi”. E un giorno, quando non studiava più da anni la lingua mandarina, si sorprese a leggere e capire qualsiasi testo in cinese. (Affascinato, Francis Ford Coppola portò questa storia di Eliade sul grande schermo nel 2007 ma non ebbe fortuna critica. Era troppo complessa). Alla fine il professor Matei rinuncerà alla disumanizzante facoltà che coincideva col suo progressivo ringiovanimento fisico. Svanita l’illusione rilevata da Borges, dell’immortalità e dell’onniscienza “ritardabile”, il professore di Un’altra giovinezza preferirà scordare e morire. La morte, come quella di Ireneo Funes, sarà per lui una specie di liberazione.

“Se è vero però che esiste sempre la facoltà di ignorare e dimenticare, non so se esista più quella di essere davvero dimenticati. Oggi nel mondo digitale e connesso è impossibile una completa damnatio memoriae”, osserva Nazzaro. “Prima delle videocassette, potevi dire per esempio che Ida Lupino fosse un’attrice dimenticata. Ora un attore o un cineasta può essere ignoto al grande pubblico, però tutti hanno la concreta possibilità di ricordare chiunque in qualsiasi momento”. C’è una compresenza di scibile, di vivi, morti e opere e la facoltà di annegarcisi. C’è la difficoltà di scegliere in un’offerta che rigenera il passato secondo un tempo innaturale: “Se chi non ha mai visto un film di Teruo Ishii lo trova adesso in super edizione, quel film per lui è uscito adesso. Benissimo, occhio però alla tentazione di sostituire al suo contesto originario il contesto del presente”.

C’è forse una domanda semisegreta che attraversa tutti quanti: “Il destino di coloro che vengono ricordati è davvero migliore di quello di coloro che sono attesi dall’oblìo? Potendo scegliere, chiederei di essere ricordato o dimenticato?”. E’  il dubbio che solleva Antonio Franchini nel romanzo L’abusivo, e che attraversa il cuore sia dei più vanitosi sia dei più schivi. Sia degli scomparsi sia dei ritrovati, anche se sono pochi, in ciascuna delle due condizioni, quelli che lo confesseranno agli altri.

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