Honoré Daumier (1863), I giocatori di scacchi 

‘Sotto scacco', la pandemia porta con sé una tragica lezione

Andrea Venanzoni

Il nuovo libro di Lorenzo Castellani (Liberilibri) è una seria, ponderata e analitica riflessione sul senso del potere in tempi di crisi e di emergenza

Descrivendo il gioco degli scacchi, Giorgio Manganelli ha scritto "è silenzioso, maniacale, malsano, genera nevrotici protagonisti di un freddo sogno di simboli e tornei, di numeri e di re". Il nuovo libro di Lorenzo Castellani, docente di Storia delle istituzioni politiche alla LUISS Guido Carli di Roma, non solo si apre con uno dei momenti più critici della vita oleografica dello scacchista ma a quel momento, lunghissimo e teso, ininterrotto e nutrito di ghiaccio, silenzio e conturbante attesa, è dedicato il titolo stesso dell’opera: "Sotto scacco", uscito da pochissimi giorni per la Liberilibri.

 

Al pari del giocatore posto dall’avversario sotto scacco, a un passo dalla fine e non potendosi egli più permettere la intrinseca fallibilità dell’animo umano, l’individuo del tempo pandemico è stato stritolato da una montante onda di eccezionalismo, di potere pubblico esondato dai limiti ordinamentali che si è dato nel corso del tempo, sotto forma di Costituzione e di contrappesi istituzionali, e da una digitalizzazione autoreferenziale e tragicamente autopoietica: l’uomo, e la società, sono finiti sotto scacco di un virus invisibile, impalpabile, a trasmissione aerea, la cui inarrestabile diffusione e contagiosità hanno alterato il senso stesso del percorso della storia, andando a seminare un prima e un dopo la pandemia.

     

Ma si è finiti sotto scacco anche dei provvedimenti adottati da un potere pubblico che nel tentativo di impedire l’avanzare della malattia, e l’aumento delle ospedalizzazioni e dei decessi, ha alterato geneticamente la posizione stessa del soggetto che un tempo centro di imputazione di diritti, libertà e interessi è divenuto ingranaggio, e suddito, di un meccanismo di precauzione sanitaria.

   

In questo tempo dolente, se c’è qualcosa di più lezioso di virologi ormai assurti alla celebrità mondana e mediatica, capaci con encomiabile trasformismo culturale di traslarsi dalle loro materie di elezione anche al costituzionalismo e alla sociologia, alla scienza della politica e alla economia, questo qualcosa è proprio il torrenziale diluvio di carta sotto sembianze di best seller pandemici: librini, libercoli, instant book, tutti a base di speranze per il futuro più o meno radioso, sul mondo che verrà una volta eclissata la nebbia pestilenziale, e focalizzati sulla sanità, sulla bellezza dello stato, su come ne usciremo e se mai ne usciremo.

     

Quello però di Castellani non è un libro della pandemia o un libro tragicamente conchiuso sulla pandemia, uno di quei tometti la cui tesi portante viene snocciolata tra uno stacco pubblicitario e un sorso di acqua in uno studio pomposamente illuminato a festa: al contrario, Sotto scacco è una seria, ponderata e analitica riflessione sul senso del potere in tempi di crisi e di emergenza.

    

Come avvertiva Carl Schmitt, nel gorgo vorticante delle fratture ordinamentali, quelle che adombrano la morfologia di un mutamento dell’assetto istituzionale, molto spesso si suole dimenticare come caos ed entropia divengano fattori onnipotenti: troppo presi dalla fisionomia carnicina del potere e delle sue garanzie e dei contrappesi delineati tra aule di tribunale e dialettica parlamentare, siamo soliti dimenticare il peso insostenibile della ferita. La ferita da cui il sangue continua a sgorgare, puro e inarrestabile, e che porta a dissanguare il senso stesso della libertà, in quella frenetica accelerazione che secondo Georges Bataille contraddistingue la sostanza della sovranità.

  

Castellani rileva come ormai la nostra vita dipenda molto più dalle decisioni assunte da un funzionario pubblico che non dai politici rinchiusi, spaventati, in un cantuccio: è d’altronde in certa misura il prezzo, inevitabile, per essersi troppo a lungo crogiolati nel ventre pasciuto di uno stato sociale cresciuto bulimicamente a dismisura, oltre ogni possibilità di mantenimento di un qualche canone di razionalità e di contenimento. Ed è frutto anche di una politica piccina, di un Parlamento volenteroso carnefice contro sé stesso che ha decentralizzato il peso della decisione e si è lasciato spogliare dal governo prima e dalla persona del presidente del Consiglio poi di ogni funzione e prerogativa.

  

In questo tumulto, nella disintegrazione degli orizzonti conosciuti, avanza ancora di più la fisionomia ombrosa della burocrazia, con le sue regole, i suoi codici comunicativi e ontologicamente autopoietici: non casualmente, Castellani ricorre, tra gli strumenti epistemologici, all’utilizzo anche della teoria dei sistemi cara a Niklas Luhmann che della burocrazia e della autopoiesi è stato indefesso cantore. Ogni giorno che passa, nella pestilenziale epoca che ha tutto votato al dogma della efficienza e della competenza, ci dobbiamo inchinare a una burocrazia inarrestabile, puntuta, pericolosa, che si è espansa in ogni ambito e in ogni nicchia della vita sociale, e che in fondo è trionfo di quella mentalità da ragioniere pubblico che già Nicolás Gómez Dávila stigmatizzava quando scriveva che "le pose rivoluzionarie della gioventù moderna sono prova inequivocabile di attitudine alla carriera amministrativa. Le rivoluzioni sono perfette incubatrici di burocrati".

  

Perché in effetti se qualcuno sperava che dalla gioventù potesse provenirci un qualche impeto al cambiamento e alla frantumazione della cappa di controllo sociale imposta dalle regole anti-pandemiche potrebbe pure concentrarsi sulla singolare polemica insorta tra il ministro della Pubblica Istruzione, Patrizio Bianchi, e una parte degli studenti i quali non volendo sostenere l’esame di maturità in presenza se ne sono uggiolati piagnucolosi "ci si ricordi del Covid!". Roba da dar piena ragione al Giovanni Papini che annunciava quale unico momento di verità della scuola pubblica la parete delle latrine su cui si va a liberare la vescica. 

 

Fingono di aver paura e a cuore la sanità pubblica, giovanotti, politicanti, burocrati e intellettuali che non hanno lavorato un sol giorno nella loro vita; e la paura, quella vera e quella artificiale inoculata dal potere pubblico nel corpo sociale, è il cuore delle riflessioni di Castellani incentrate e dedicate alla paura e al corpo del sovrano. Antico e ombroso è il nesso che intercorre tra la paura e la fondazione dello stato, e rimanda a quell’epoca metastorica, immaginifica ma conveniente, dello stato di natura hobbesiano che può solo essere domato brutalmente dallo spossessamento della propria autodeterminazione, pattiziamente ceduta al Leviatano il quale si curerà, con ogni mezzo, whatever it takes declinato in salsa pandemica, di far star buoni tutti, docili e riottosi. L’esigenza servente di governare la paura si fonde alla speculare necessità di governare con la paura: il Moloch statale si nutre della paura e al tempo stesso esorcizza le abissali paure dei cittadini che consociandosi rinunciano alle loro individualità per sfuggire alla asserita brutalità della guerra selvaggia del tutti contro tutti.

  

Il rito è procedura, insegnava Mircea Eliade, e ogni procedura è violenza anti-naturale, che struttura la realtà dei fatti e la sminuzza per adattarla a una contro-realtà istituzionale. La sovranità che fonda lo stato si nutre del senso profondo della paura e del misticismo: da Jean Bodin a Ersnt Kantorowicz, passando per Alexandre Kojève e Carl Schmitt, c’è quella linea concettuale che si è soffermata sulla fondazione del potere regale come secolarizzazione della regola mistica e dell’abisso della metafisica, uno scettro per domare gli spettri del vuoto e dell’anarchia, come se questa ultima fosse per forza di cose un male.

  

Il paradosso del tempo pandemico è proprio quello di snudare su un palcoscenico istituzionale la consistenza di questo binomio sovrano: si lotta e combatte contro la paura pestilenziale, l’angoscia della terapia intensiva, la colonna di camion coi morti sopra, le bare sigillate, la mestizia di chi resta a vagare nel silenzio di notti tutte uguali, ma per farlo, per farlo con maggiore efficienza ed efficacia, si costruisce un teatro degli orrori, celebrando un osceno carnevale di sofferenza e di terrorismo psicologico. Colate laviche di pornografia medica gettate onda su onda contro gli spettatori televisivi. Ed è certo vero, come rileva Castellani, che il potere opera da antidoto alla paura perché riduce, sistematizza, sgretola la complessità, e la complicazione che questa sempre importa: e così facendo, inevitabilmente, si stringono le maglie dei controlli e si asfissia la libertà. In questo cortocircuito si disegna la fine della libertà e del mondo che abbiamo conosciuto. Spinte centripete spesso sospinte dallo smodato uso del digitale, capillarmente invasivo di ogni nostro centimetro di anima e di pelle: è il grande padre digitale, cui Castellani dedica un capitoletto.

 

In un altro recente libro, Calise e Musella hanno parlato di ‘Principe digitale’ per descrivere quei processi politici slabbrati dal linguaggio del digitale, in una epoca di iper-personalizzazione e di partiti frantumati trasformati in network in apparenza eterarchici ma votati a logiche direttoriali: ecco, prendete questa lezione e aggiungeteci la porosità vischiosa della logica pandemica, in cui il digitale ha contribuito non solo a far comunicare e a controllare ma ad entrarci letteralmente dentro, ben oltre la lezione della Zuboff e del suo capitalismo della sorveglianza che a ben vedere poi è assai poco capitalismo e molto, ma davvero molto, statalismo.

 

L’espansione dei poteri di polizia, la bulimia sovrana del pubblico a discapito di qualunque manifestazione di individualità, la crisi elevata a sistema e a ordine del giorno da cui far partire qualunque discussione, l’oscillazione del pendolo tra il collasso decostruito da Jared Diamond e la catastrofe su cui di recente ha scritto Niall Ferguson, sono fattori che tra loro cospiranti producono uno scenario oggettivamente inquietante. Secondo Castellani, non uno scenario del tutto nuovo: la crisi non contribuisce, in questa prospettiva, a strutturare fenomeni del tutto nuovi, ma può infondere elementi e un corso questi sì nuovi alla storia e al ciclo vitale della società nel suo complesso. Di questa visione conclusiva però, devo dire, non sono del tutto persuaso, e per un motivo lineare: ogni crisi prelude non semplicemente a un riassetto ordinamentale ma alla edificazione di un mondo nuovo.

 

La crisi di inizi novecento su cui si è soffermato Santi Romano nella celebre prolusione pisana, la crisi della civiltà su cui si sono esercitate sensibilità diverse come quelle di Jung, Freud, Ortega y Gassett, Mann, Musil, Junger, Heidegger, Schmitt: la crisi, quando è vera crisi, produce un novum e questa novità può essere il sentiero lungo cui incamminarsi verso il collasso o verso la catastrofe, come pure fu negli anni immediatamente seguenti la massiccia riflessione sul senso della tecnica e della mobilitazione totale, oppure può preludere a un riassetto assiologicamente più libero e innovativo, governato da logiche inclusive. Che una crisi acceleri fenomeni latenti e li faccia esplodere alla fredda luce del giorno, è indubbio. Ma è altrettanto indubbio che la crisi sia proprio quella luce. Essa snuda, orienta, conforma, plasma ma soprattutto fonda, origina e crea, e solo una società matura, salda nei propri principi, può utilizzare quei bagliori senza farsene condizionare o annullare, come nel pietrificante sguardo della Medusa. E se non ripartiamo dal fondamentale assoluto, ovvero la libertà, brancoleremo nella tenebra del dispotismo, sani sì ma schiavi.