L'amore perduto, David Lynch 

L'esordio di Shannon Pufahl celebrato dal New York Times

Vanni Santoni

L’amore lynchano di “Cavalli elettrici” attraverso un’America fuori dal tempo

Dopo il successo di Nomadland di Jessica Bruder, spinto dal film premio Oscar con Frances McDormand, la casa editrice fiorentina Clichy ci fa viaggiare di nuovo attraverso le strade perdute d’America, ma sotto una prospettiva del tutto diversa. Cavalli elettrici, romanzo d’esordio di Shannon Pufahl (nella traduzione italiana di Giada Diano), già finalista del premio letterario Lambda e libro più atteso dell’autunno per il New York Times, racconta due storie d’amore e fuga che si intrecciano nei tardi anni Cinquanta, su e giù per un’America in cui ribolle un’imminente onda di cambiamento, dal Kansas alla California, da Las Vegas fino a Tijuana. 
C’è una giovane coppia insoddisfatta, che vuole ripartire altrove e “imparare così a essere moderna”: sono Lee e Muriel, e potrebbero ricordare i Frank e April di Revolutionary road di Richard Yates, solo più dinamici. C’è un giovane marginale, quasi disadattato, un rebel without a cause, nella persona di Julius, fratello di Lee. E c’è, dietro a un’America in cui già i beat annunciano la libertà, l’amore e la psichedelia a venire degli anni Sessanta, l’ombra invece gelida e oscura della Guerra fredda. 
L’altro paragone che si è visto fare negli Stati Uniti è quello con Brokeback Mountain, racconto di Annie Proulx sceneggiato per il cinema dal maestro del West Larry McMurtry, per via dell’altra storia d’amore al centro del romanzo, quella tra Julius e un baro conosciuto a Las Vegas. In realtà il clima che si respira in Cavalli elettrici finisce per ricordare più un Lynch – si pensi a quello di “Cuore selvaggio” o “Strade perdute” – depurato dal sovrannaturale, che Yeats o Proulx. Lontani da una reale dimensione storica (per quanto storicamente accurati dal punto di vista strettamente tecnico), gli anni Cinquanta di Pufahl appaiono più come un campo immaginario e simbolico in cui proiettare tensioni interiori non legate a un piano temporale specifico. 
Abbiamo tavole calde e tavoli da gioco, corse di cavalli e test nucleari osservati dal tetto, infiniti campi di mais e spiagge californiane illuminate dalle stelle, fino a quel ventre molle e nero dell’intero Nord America che è la città di confine e contrabbando di Tijuana. Questi scenari si fanno sfondo a tratti reale, a tratti onirico, per una storia di ricerche parallele, specchio l’una dell’altra specie nel rapporto emblematico tra Muriel e Julius. Due storie d’amore – ed è normale che lo si promuova così – ma soprattutto due storie di umani che non si riconoscono nel luogo e nel tempo in cui vivono, né in loro stessi; donne e uomini alla ricerca di un risveglio della propria coscienza, che ancora non può avvenire e quindi può solo essere cercato invano, o simulato: Cavalli elettrici ci parla anche del problema della rappresentazione di noi stessi, sia verso il mondo esterno, sia a livello interiore. Al tempo stesso, però, Pufahl è efficace nel ricordarci un fatto, invece, prettamente storico, ma non sempre rappresentato nei romanzi anche scritti negli anni Cinquanta (o prima), ovvero che non c’era mai stata, in passato, un’epoca in cui le donne fossero libere di uscire dalla propria casa e non erano vincolate al matrimonio e ai figli.
Se a volte il romanzo cede alla tentazione di voler toccare troppi temi cari al lettore contemporaneo, essendo un esordio gli si perdona volentieri qualche eccesso, anche e soprattutto grazie alla prosa di Shannon Puhfal, densa e lirica ma capace di improvvisi scatti in avanti, come un serpente che si risvegli in mezzo a un deserto dove sembra non succedere nulla e ci morda iniettandoci tutto il veleno dell’esistere.