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Vicky, trent'anni dopo

Con le bestemmie Tondelli ha raccontato la marginalità dei suoi libertini

Gaia Manzini

I tossici e gli sfigati nel documentario di Stefano Pistolini che racconta lo scrittore emiliano

All’inizio degli anni Ottanta scendevo di casa ogni mattina insieme a mia madre per andare a scuola. Puntavamo alla macchina parcheggiata tra gli alberi che costeggiavano la via dove abitavo. Mia madre mi diceva di fare molta attenzione a dove mettevo i piedi. Per terra, ma talvolta anche conficcate nei tronchi, c’erano decine e decine di siringhe. Poco più in là, in una casa occupata, viveva un gruppo di punk: mia madre pensava che le siringhe fossero loro, ma in realtà non erano solo loro. Erano i tempi in cui i ragazzi morivano per colpa dell’eroina: fino a pochi anni prima si voleva fare la rivoluzione, ma poi l’anelito sovversivo si era trasformato in tanti e dispersi percorsi solitari. Dai morti della politica si era passati ai morti della droga.

Ho ripensato a quelle mattine quando, poco più che ventenne, ho letto per la prima volta Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli. Postoristoro è stato per me un racconto sconvolgente. C’era questa lingua selvatica, dirompente, tutta musicalità e ritmo. C’era questa prosa che faceva casino, che aggiungeva decibel ai mormorii dell’anima. Giovanni Lindo Ferretti in Ciao, Libertini! (il bel documentario di Stefano Pistolini scritto in collaborazione con Simonetta Sciandivasci, Mario Fortunato e Piero Maccarinelli, andato in onda su Sky Arte in questi giorni) racconta della portata dirompente che ebbe quel libro: Tondelli parlava dei giovani emiliani come non lo aveva mai fatto nessun altro prima.

Parlava dei ragazzi, dei tossici, degli sfigati, delle piazze dello spaccio e della vita. Usava la lingua ruvida dello sproloquio e della blasfemia. I giovani, i tossici, gli spacciatori, i malviventi straparlano e bestemmiano, soprattutto quello. La bestemmia come preghiera, la bestemmia come senso d’impotenza e desiderio di salvezza in cui la disperazione giovanile diventa disperazione di tutta l’umanità. Lo fa notare nel documentario Antonio Spadaro.

 

In quell’uso quasi mistico della bestemmia c’è la capacità di raccontare la marginalità. La marginalità che viaggia verso Berlino, che bivacca nei bar, che sosta nelle stazioni. La stazione simbolo totale dell’essere fuori dal mondo; la stazione che è sempre un non-luogo. Non è un caso che otto anni dopo Altri libertini, Giovanni Testori (autore ammirato da Tondelli) porti proprio in stazione Centrale a Milano il suo testo più sconvolgente, In exitu. E’ la sua ultima opera ed è il monologo di Riboldi Gino, tossico che vive in stazione e sta per morire ignorato da tutti. Testori andò direttamente in Centrale insieme a Franco Branciaroli: lo misero in scena lì come un happening. Fu un evento, ma non poteva altro che essere tale: i teatri lo rifiutavano. Si vedeva una Milano ferita e fragile. In quel monologo tutto dialetto, parolacce e bestemmie c’era una potenza che Tondelli conosceva. La bestemmia è l’invocazione del mancato intervento divino, diceva Pasolini più volte ripreso da Mario Desiati nei suoi romanzi e discorsi. Come a dire che quella cosa di sentirsi fuori dal mondo, schiacciati ai margini, è un sentimento universale e senza tempo che si accompagna alla giovinezza, a una certa giovinezza. Ed è comunque espressione di una voracità di vita. La stessa che ha camminato insieme a Tondelli per tutto il suo percorso creativo e che è ben raccontata nel documentario. Tondelli che pubblica, che è giornalista per l’Espresso, che compone testi per gli Skiantos, che scrive per il teatro e che si fa comunque voce di una generazione, in quel sentirsi senza limiti anche nella propria sofferenza, anche nella propria diversità (ognuno la sua) da cui liberarsi o attraverso la quale capire il mistero della vita.

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