Facce dispari
Antonella Cilento, la scrittura come laboratorio di rinascita
"Più mi piace un volume più lo sottolineo, lo annoto, lo ‘ciancico'. Mi trattengo solo con i Meridiani…"
Trent'anni di "lalineascritta", la scuola di scrittura che ha insegnato anche a "leggere". Sui social? "Si scrive tanto, ma schifezza". I gialli? "Sono un genere consolatorio". Intervista ad Antonella Cilento
Se la scrittura creativa fosse davvero più peccato che virtù, Antonella Cilento per il suo invito a peccare sarebbe un diavolo di prima classe (o diavola, o diavolessa o come diavolo si dice al femminile secondo correctness). Migliaia di allievi da trent’anni sono passati per i suoi laboratori di ‘Lalineascritta’, senza contare quelli dei corsi occasionali che ha tenuto e tiene un po’ dappertutto. Ne ha riportato le voci e qualche volta i nomi su ‘La Caffettiera di carta’, il manuale di lettura e scrittura creativa pubblicato a settembre scorso con Bompiani “per inventare, trasfigurare, narrare”.
Per quale ragione bisognerebbe inventare, trasfigurare, narrare?
Le ragioni per cui alcuni di noi sono inclinati, o necessitati a scrivere, restano naturalmente molto soggettive. Ma spesso ciò che spinge a frequentare un laboratorio è il desiderio di recuperare la propria memoria, di chiarirla e tramandarla fosse solo per la famiglia o per gli amici. Per altri un laboratorio di scrittura è lo strumento per conoscersi, esplorare emozioni e sentimenti sopiti o nascosti. Per qualcuno, infine, c’è l’ambizione di capire se potrà pubblicare un libro o addirittura fare della scrittura un percorso professionale. Per tutti, poi, il laboratorio rappresenta anche un’opportunità di leggere, ossia di coltivare meglio un vizio solitario che riguarda sempre meno persone, perché qui incontra un gruppo di lettori forti.
Quant’è diverso un allievo di oggi da uno di trent’anni fa?
Diversissimo. Negli anni Novanta chi s’iscriveva al laboratorio aveva un’idea abbastanza chiara di cosa fosse la letteratura, anche quella contemporeanea. Negli ultimi vent’anni quest’attitudine è colata a picco: chi arriva ha letto pochissimo, solo roba commerciale o di genere. Non ha un orientamento e se è fra i più giovani ha frequentato quasi soltanto il fantasy. Mentre noi arrivavamo alla scrittura perché avevamo letto tanto, ora è un approdo scaturito da un desiderio di autoespressione che non si fonda sulle esperienze di lettura. Il mio obiettivo è che la voglia di scrivere alimenti quella di leggere.
Eppure non s’è mai scritto tanto come oggi. Sui social si fa in continuazione.
Si scrive tanto, ma schifezza. La verticalità della scrittura è completamente cancellata da una comunicazione veloce, che crea un’enorme destabilizzazione emotiva tutta di superficie. Senza pretendere di schiudere abissi céliniani, bisogna incoraggiare l’esplorazione emozionale del passato. Quando riesce si palesa come una scoperta, come una prima volta. Perciò l’atto della scrittura diventa una rinascita. A paragone di altre scuole, che si concentrano sugli aspetti tecnici, faccio molta più attenzione a quelli psicologici, ai blocchi che impediscono l’espressione scritta.
Perché si legge meno? È veramente colpa degli smartphone e dei social?
Il loro avvento è successivo al declino della lettura. Telefonini e device accentuano la distrazione e i deficit cognitivi, ma l’intero sistema della comunicazione, dell’editoria, della formazione scolastica ha contribuito alla fine della lettura come strumento di anima e di cittadinanza. Più si proclamava di incentivarla, più la lettura era disincentivata. Il terreno era già preparato per l’arrivo degli smartphone.
Lei personalmente legge anche sui supporti elettronici? Possiede il Kindle?
Per me i libri hanno un’irrinunciabile corporeità. S’intrecciano con la meditazione, che pratico da sempre. Più mi piace un volume più lo sottolineo, lo annoto, lo ‘ciancico’. Mi trattengo solo con i Meridiani… Anche la scrittura è un atto fisico: compongo a penna, su ogni tipo di quaderno, e solo dopo trasferisco al computer ma non sovrascrivo i file. Mi conservo tutte le tracce.
Quanto tempo impiega a fare un libro?
Dipende: un romanzo come ‘Morfisa’ ha richiesto cinque anni ininterrotti; ‘Isole senza mare’ addirittura dieci, inframmezzati dalla lavorazione di altri libri.
L’editoria italiana è invasa dai giallisti. Quanto ancora durerà?
Il giallo è un genere rassicurante e assai consolatorio, perché offre sempre una soluzione che nelle vicende della vita sappiamo spesso mancare. In altri Paesi la penna dei giallisti e dei noiristi è più spietata. In Italia, come si può dire, è un po’ a pane e peperoni.
Quanto la entusiasma procedere in un lavoro ‘contra viento y marea’?
La soddisfazione è avere resistito nel tempo, soprattutto in una città come Napoli dove è difficile riuscirci, senza soldi pubblici né appoggi politici. Ma nel tempo ‘Lalineascritta’ è diventato un laboratorio senza connotazione locale: ai corsi partecipano online anche studenti parlanti italiano da vari Paesi europei, dal Messico e dal Giappone, malgrado il fuso orario li costringa a collegarsi a orari improbabili.
Concludiamo con una frase di ‘La Caffettiera di carta’?
“Non si scrive immaginando di scrivere. Si scrive scrivendo. Altrimenti il tempo passa e non avrete combinato nulla”.