Bellezza inclusiva

Arte o attivismo?

Il Turner Prize premia un collettivo nordirlandese che fa più politica che estetica. Un cambio significativo

Maurizio Crippa

Ma è arte o attivismo? Il Turner Prize premia solo collettivi: vincono i performer nordirlandesi che sfilano per l’arcobaleno dei diritti

Alla Biennale Architettura di Venezia da poco conclusa il padiglione della Gran Bretagna aveva l’evocativo titolo “The Garden of Privatised Delights”, un gioco sul “Giardino delle Delizie” di Bosch per mettere nel mirino quegli spazi urbani che nel Regno sono privati, ma che in un futuro più urbanisticamente inclusivo dovrebbero tornare pubblici. C’era anche un prototipo di pub, altro luogo per antonomasia privato-ma-pubblico della tradizione inglese, pronto alla trasformazione inclusiva con bancone ribassato per i clienti diversamente alti. Il paradosso, in tutto questo lavoro di architetti pagati dal pubblico, è che il Regno Unito è il paese a più alto tasso di privatizzazione del mondo. Per dire che la subordinazione delle arti e della ricerca culturale alle istanze sociali e politiche è ormai totalizzante: non puoi immaginare un futuro (“How will we live together?” era il titolo della Biennale) se non nel segno di un nuovo utopico collettivismo monotematico. L’arte, dopo qualche secolo di relativa libera uscita in cui ha pre-visto il divenire dell’umanità, è rientrata nella sua funzione di illustrare (dar lustro) le  visioni del committente. Che può essere anche solo la volontà generale, banalmente intesa.

   
C’entra anche con il Turner Prize, il più prestigioso premio d’arte contemporanea riservato ad artisti britannici organizzato dalla Tate Gallery con formula itinerante, quest’anno la sede era a Coventry. Dove il 1° dicembre è avvenuta una piccola grande rivoluzione. Anziché un singolo artista si è deciso di premiare un collettivo. Non per opere figurative o plastiche, ma per performance e interventi “di strada” che “portano un senso di luce, speranza e umorismo”. Gli undici artisti premiati fanno parte dell’Array Collective, sono nordirlandesi e sono famosi soprattutto per la partecipazione alle proteste politiche, dove sfilano in variopinti costumi carnevaleschi e dissacratori.

  

  

A Coventry, l’Array ha allestito un pub (tanto per stare al privato-pubblico) tappezzandolo con striscioni di protesta. Non sono mancate le critiche, ma il cambiamento è notevole. Innanzitutto per il contenuto delle creazioni dell’Array (il famoso contenuto dentro alla forma, tornato prepotentemente di moda). I temi sono innanzitutto l’aborto – in Nord Irlanda da poco introdotto, ma fortemente “boicottato” dal governo – i diritti dei gay e tutto l’arcobaleno consueto.

  

 

Un segnale che l’arte ha oggi presentabilità, ruolo e mercato soltanto se è veicolo di una determinata gamma tematica. Il cambio di marcia è notevole anche per un altro motivo. Il Turner quest’anno ha nominato solo collettivi. Il gruppo di Belfast ha vinto su altri quattro gruppi di orientamento culturale analogo, ma forse meno “solare” e istrionico: il Black Obsidian Sound System, persone queer di colore, trans e non binarie; il Cooking Sections che si dedica a denunciare i problemi dell’allevamento del salmone; il Gentle/Radical, gruppo gallese di ministri di chiese protestanti e operatori giovanili dediti a portare l’arte nelle famiglie povere; la comunità di neurodiversi Project Art Work.

   

  

Della qualità artistica non è qui luogo di parlare. Anche se alcuni critici si sono lamentati per il peso assegnato più all’attivismo  che all’arte. Rachel Campbell-Johnston del Times  ha scritto: “Il problema  è che la loro arte è terribile”. Il ruolo pubblico che l’arte sta assumendo fa certo parte di un cambiamento di sensibilità globale, il rischio è in una certa inclusività esclusiva che segna i nuovi perimetri entro cui necessariamente gli artisti devono stare. Jake Chapman, uno dei nominati al Turner nel 2003, ha di recente dichiarato che il premio è ora chino a “un senso di responsabilità sociale molto definito e performativo” che sta limitando la capacità di mostrare arte sperimentale più aperta. 

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"