Quentin Matsys, "Amanti mal abbinati", 1520-1525. Dominio pubblico 

Adesso che tutto è bellezza, rivorremmo un po' di rasserenante bruttezza

Marco Archetti

“Ripartire dalla bellezza”, "Weekend all’insegna della bellezza”, “L’economia della bellezza”, “Costruttori della bellezza”. Onnipresente, esagerata e ubiqua: come fuggire?

Condannati alla bellezza, riusciremo a salvarci? Fëdor Dostoevskij, il più citato a sproposito, già ne L’idiota intuì quanto la bellezza fosse terribile e paurosa, in bilico tra bene e male, indicibile ed enigmatica, e ne I fratelli Karamazov come in essa covasse, semmai, qualcosa di demoniaco. Nell’idea di bellezza oggi dominante cova il food, cova il pil, cova il mood. Ma ultimamente covano soprattutto una fionda, un onagro, una balestra a girella, cose così. E si sente garrire la bandiera di uno start. “L’Italia riparta dalla bellezza!”. Questo paese che si inceppa, riparta da se stesso – e scusate se viene in mente “Perfect day”, la gag in cui Stanlio e Ollio, a bordo di un’automobile, si congedavano garruli per darsi a una scampagnata. “Arrivedorci, arrivedorci”, ripetevano, ma non se ne andavano mai perché la maledetta non si decideva a mettersi in moto. 

 
Il problema è però serissimo: ora che tutto è bellezza, come fuggire? Questa bellezza è, senza mezzi termini, un incubo. Ci guarda e non ci molla un momento. Ci tallona e ci sfianca. Era inafferrabile? È afferrabilissima, addirittura proteiforme: ha il nobile profilo di un palazzo rinascimentale e anche quello di un raviolo al caprino dop. “Trentesima edizione per il Merano Wine Festival: si celebra la bellezza nel mondo wine & food”, annuncia una manifestazione. “Bilancio delle giornate del Fai: weekend all’insegna della bellezza”, declama un comunicato. E riferendosi a certi lavori di ristrutturazione portuale, un sito di news rilancia: “La bellezza salverà il molo!”

  
Va così. E andrebbe così se anche questo articolo si lamentasse fino a domani, è la bellezza e tu non puoi farci nulla, vedi? Questa bellezza, onnipresente a vario titolo e a vario tono, è meretricale e ubiqua e occhieggia da un banner di agenzia di viaggi, fa capolino in una riunione di Federalberghi, è la regina di qualsiasi inaugurazione, sfavilla nel lessico delle intenzioni e si impossessa di tutte le visite guidate. Spadroneggiava anche a Città della Pieve, un paio di giorni fa, durante il convegno “Ripartire dalla bellezza”, con oggetto “L’economia della bellezza”, ricerca elaborata dall’Ufficio studi di Banca Ifis in materia di patrimonio e servizi correlati, occasione – si legge – per presentare anche il lavoro dei “Costruttori della bellezza”, falange di volonterosi che ha scritto la “Carta della bellezza”. Perché la bellezza è se stessa più l’indotto: un 17,2 per cento del pil italiano. “Anni fa parlare di turismo lento era utopia”, ha dichiarato il ministro del Turismo Massimo Garavaglia presente ai lavori. “Oggi il turismo lento corre!”. Facile immaginare che, dall’oggi al domani, i turisti dello slow si ritroveranno pigiati in coda, sgomitanti pur di godere del proprio diritto alla lentezza bellissima. Insomma, qua è tutto un celebrarsi defenestrando allegramente Kant, sostituendo la bellezza con il piacevole, confondendola con l’interesse e trasformandola in risorsa, asse portante, architrave. E intonandola a un’epica incessantemente autonarrativa. È prestazionale per definizione, questa bellezza che ci ossessiona e che misura la nostra sensibilità mentre, dal trono pieghevole di una brochure, ci ricatta e ci bacchetta.

  
A questo punto, con l’ultimo fiato che ci resta, ci dichiariamo esausti di perpetua perfomance. Se possibile, rivorremmo un poco di rasserenante bruttezza. Anche solo per un momento. Una quiete senza enfasi, un refolo consolatorio, meno roboante e agonistico. Vorremmo che la bellezza tornasse a celare se stessa, a nascondere le tette, a non volerci baciare sempre con la lingua. Una bellezza che non ci sia continuamente contemporanea. Una bellezza lontana, mistica, armonia sommessa, traccia da intuire, balenio sconosciuto all’opalescenza del reale. Rivorremmo la bellezza impercepita, indifferente verso chi la guarda, anzi, vero e proprio monumento di indifferenza, estraneo al tempo dei contemplanti. Una bellezza che ancora non conosca se stessa. Una bellezza che non sappia niente di noi.

Di più su questi argomenti: