prof. all'inferno

“Paty è stato vittima di un processo kafkiano”, dice l'autore del libro-inchiesta sull'assassinio del prof

Giulio Meotti

“Samuel Paty fu accusato di un crimine razzista che non esiste e sulla base di una voce infondata di una studentessa non presente”. Intervista a David di Nota

"Delitto istituzionale”, “barbarie amministrative dal volto umano”, “dittatura del rispetto”. Le parole sono dure, l’accusa tremenda. Servono per “capire l’incubo in cui è stato fatto prigioniero Samuel Paty”. Il libro del romanziere David di Nota, “J’ai exécuté un chien de l’enfer” (Le Cherche Midi), riprende la frase con cui sui social Abdullah Anzorof ha rivendicato la decapitazione, esattamente un anno fa, del professor Paty: “Allah, ho ucciso un cane dell’Inferno che ha osato infangare il tuo nome”. 
Il libro è una spaventosa lente d’ingrandimento sulla nostra vigliaccheria. Di Nota smonta la “meccanica infernale del ricatto”, la “deviazione totale dell’antirazzismo” e l’uccisione di un uomo che voleva “semplicemente, e onestamente, fare il suo lavoro”. Per di Nota, romanziere pubblicato da Gallimard che ha fatto della letteratura uno dei  elementi di comprensione del mondo, il riferimento a Kafka era d’obbligo: “Kafka è uno dei grandi maestri del morire solo, uno dei grandi educatori di questo schiacciamento che, alla fine, ti isola completamente. Nel ‘Processo’, Joseph K. viene catturato nelle fauci di una macchina amministrativa che rende impossibile qualsiasi difesa”. Samuel Paty è il suo Joseph K. “Il professore è accusato di un crimine razzista che non esiste, sulla base di una voce inventata. Invece di proteggerlo, l’istituzione decide di rieducarlo e di fargli chiedere scusa, per il suo bene e in nome della convivenza. Alla fine del processo, due uomini lo pugnalano con un coltello, così Joseph K. dice: ‘Come un cane’”.
Nella relazione dell’ispettore c’è scritto: “Samuel Paty ha offeso gli studenti”. Quando viene convocato, Paty dichiara: “L’anno prossimo sarò interessato alla libertà di movimento in Cina”. Un modo per dire: ho capito il messaggio, devo tacere. E tutti hanno “capito”, con quella decapitazione.
A un anno dall’uccisione del professor Paty in una scuola media a Conflans-Sainte-Honorine, dopo la quale il ministro dell’Istruzione Jean Michel Blanquer ha rivelato che nelle scuole francesi si sono verificati “ottocento episodi islamisti”, un professore francese è stato sospeso per aver fatto l’elogio dei talebani. Il 16 agosto, il giorno dopo la presa di Kabul, Khalid B. scrive sul suo account Facebook: “I talebani hanno volontà e coraggio senza limiti...”. Khalid B. non insegna in un “sobborgo difficile”, ma a Peltre. Villaggio di 1.900 abitanti, Peltre, vicino a Nancy, è in cima alla lista del 2020 di “villaggi e città dove la vita è bella”. E non è certo il primo docente francese a inneggiare alla jihad. L’Express rivela che un insegnante di Matematica, che faceva anche da imam, Abdelali Bouhnik, è stato sospeso dall’Académie di Créteil per aver invitato “i fedeli a pregare per i jihadisti di tutto il mondo”. Membro dell’Educazione nazionale da più di 25 anni, l’uomo insegnava matematica nel liceo Jean Moulin, a Torcy. A Lione, racconta Le Parisien, un aspirante professore è stato arrestato per “apologia del terrorismo e minacce al personale e agli studenti cattolici”. Sul computer di un altro professore erano archiviate più di mille  foto e video di propaganda jihadista, rivela sempre Le Parisien. L’insegnante di matematica di Grenoble, nato in Marocco, è stato condannato a due anni di carcere dopo aver insegnato a lungo nelle scuole pubbliche e superiori. 
 In un liceo pubblico di Rennes insegnava invece Khalid Z., membro di un movimento salafita e traduttore di al Qaeda. Siamo arrivati al punto che il 40 per cento degli insegnanti in Francia si autocensura sulle materie “sensibili”. Che una studentessa, Mila, ha dovuto abbandonare due scuole e ora vive “come lo staff di Charlie Hebdo, bunkerizzata”, come ha detto l’avvocato di Mila, Richard Malka. Che “Caroline L.”, una docente dell’Università di Aix-Marseille, ha ricevuto innumerevoli minacce di morte, accusata di “islamofobia”, per aver spiegato ai suoi studenti che “non c’è libertà di coscienza nell’islam”. Che un liceo di Riom è stato addirittura chiuso a causa di “minacce di morte” contro gli insegnanti.
“Ciò che mi ha subito colpito dell’attacco del 16 ottobre 2020 non è che gli islamisti si comportino da islamisti decapitando un uomo: bisognerebbe essere straordinariamente ingenui per essere sorpresi da questo”, dice al Foglio David di Nota. “No, ciò che ha immediatamente attirato la mia attenzione è che strati su strati di commenti sono stati ammucchiati su strati di commenti prima che io cercassi di scoprire, molto semplicemente, cosa fosse successo. Vorrei fare subito un esempio: all’indomani dell’assassinio, in Francia è scoppiata una polemica, iniziata dal ministro dell’Istruzione superiore, Frédérique Vidal, sull’esistenza – o meno – dell’‘islamogoscismo’. Esiste una cosa simile? Si scopre che la realtà ha già risposto a questa domanda. Basta analizzare gli argomenti dell’islamista che ha guidato la campagna d’odio contro Samuel Paty, Abdelhakim Sefrioui, argomenti che riprendono tutti i temi cari alla cosiddetta sinistra radicale (come il razzismo di stato o l’idea che la difesa della laicità francese sarebbe un’arma contro i musulmani), per osservare questa collusione in loco. Vi rimando al video di Sefrioui su questo punto, che sarebbe sbagliato ignorare. Non solo questa collusione oggettiva esiste, ma è ciò che ha fatto precipitare l’omicidio di Samuel Paty. Rispondere a questa domanda in astratto invece di partire dall’assassinio stesso è un grave errore, a meno che non si consideri che la realtà non ha nulla da insegnarci, se non rifugiarsi nella negazione. Bisogna dunque partire dal singolare per risalire al generale, non il contrario. Ho sentito il bisogno di rimettere tutto sul tavolo, di raccontare i fatti uno dopo l’altro, cercando di cogliere la dinamica che ci porta da una voce infondata sulla presunta islamofobia di Samuel Paty (una voce iniziata da un alunno che non era in classe) alla decapitazione di un uomo”.
A un anno di distanza si pubblica la tesi di laurea di Paty dedicata al colore nero e si scopre non un semplice professore, ma un attento studioso del proprio tempo. “Si è fatto molto per presentare Samuel Paty come una specie di insegnante ingenuo” continua di Nota. “E’ fondamentale capire perché la sua stessa gerarchia ha difeso questa versione. Torniamo ai fatti cronologicamente: mentre l’insegnante era oggetto di minacce fisiche orchestrate da un noto islamista, l’Education Nationale ha scelto – ammiriamo il tempismo – di accusare l’insegnante di aver commesso un ‘errore’. Quale errore? Quello di ‘offendere’ (questo è il termine usato) gli ‘alunni’. Questa è una tesi molto strana. In primo luogo, perché è falso – Samuel Paty non offendeva i suoi allievi: al contrario, essi testimoniavano il carattere positivo del corso e la buona atmosfera generale. In secondo luogo, perché questa tesi è quella del bugiardo, cioè dello studente che non era in classe. Questa è un’anomalia molto curiosa, che il rapporto ufficiale dell’Ispettorato generale si è guardato bene dal menzionare, e tanto meno dal spiegare. In contrasto con questo approccio mostro nel mio libro che Samuel Paty era perfettamente lucido, sia sugli islamisti che cercavano di destabilizzare il suo corso sulla libertà di espressione, sia sul ‘sostegno’ – ambiguo, strano e ambivalente a dir poco – della sua amministrazione. Quando dichiarò alla stazione di polizia, tre giorni prima del suo assassinio, ‘non ho commesso alcun reato nell’esercizio delle mie funzioni’, stava rispondendo, non al commissario, ma alla sua amministrazione. Resta una domanda fondamentale: perché vogliamo che l’insegnante ammetta a tutti i costi un ‘errore’? Questa è la domanda che ci porta al cuore dell’inconcepibile, la domanda che rivela il punto cruciale che l’amministrazione non riconoscerà mai. Si è cercato di ‘riformulare’ l’insegnante in segno di buona fede verso la coorte di molestatori nella speranza che, per grazia di questa riformulazione, le cose si calmassero. L’insegnante è diventato la miccia perfetta, la variabile di aggiustamento, il colpevole ideale, ed è per questo che, fin dall’inizio (cioè il 6 ottobre), è stato chiesto a Samuel Paty di scusarsi per un malinteso creato da un alunno che non era in classe. ‘L’assurdità della situazione è, come spesso accade, comica’, ha scritto l’insegnante in una email”.
Tanti dunque i colpevoli… “Non attacco mai le persone nel mio libro e non prendo mai la posizione di un giudice. Questo non è il mio lavoro. Il mio compito è quello di far emergere il più chiaramente possibile la crudeltà che l’omicidio di Samuel Paty – una disposizione amministrativa così singolare –  nasconde. La crudeltà non è l’islamismo. E’ molto facile condannare l’islamismo, ma è molto più difficile esaminare la crudeltà sistemica che espone e continua a esporre quotidianamente gli insegnanti, gli indispensabili trasmettitori della nostra cultura. L’assassinio di Samuel Paty ci offre l’opportunità di farlo, a condizione, come direbbe Althusser, di ‘non raccontarci storie’. Questo è ciò che è in gioco in questo libro, un libro profondamente letterario. Per tutto questo, questo libro non è una fiction. Questo libro è la saggistica che oppongo a tutti coloro che vogliono raccontarci delle storie”. 
Cosa c’è in gioco in questo assassinio? “‘Perché cercate di seminare discordia?’. Ecco come i molestatori di Conflans Saint-Honorine hanno fatto pressione su Samuel Paty prima di presentare l’insegnante come un islamofobo sui social (fino a quando Abdoullakh Anzorov, l’assassino, gli ha dato la caccia). Gli islamisti sono maestri nel ribaltare la situazione, ma non sono gli unici. ‘Samuel Paty è stato assassinato? Questa è la prova che il laicismo francese è colpevole’, così ragionano alcuni editorialisti del New York Times e una parte significativa dell’intellighenzia francese e internazionale. Vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che le stesse tattiche intimidatorie furono usate qualche mese dopo in Inghilterra, nello Yorkshire, alla Batley Grammar School. Ancora una volta, i cosiddetti ‘genitori degli alunni’ sono venuti a minacciare un insegnante in nome dei loro divieti religiosi; ancora una volta, gli alunni sono venuti in difesa del loro insegnante sottolineando che non erano affatto ‘scioccati’ dalla vignetta di Charlie Hebdo mostrata durante la lezione. Se la rabbia dei credenti si spiega con l’insufficiente apertura o tolleranza del laicismo francese, perché questo ricatto avviene in Inghilterra, in un paese con una tradizione politica così diversa? La verità è che il caso contro la laicità francese non regge. Indipendentemente dalle loro tradizioni e singolarità, tutte le società laiche sono sotto attacco allo stesso modo in Europa, quindi non è difficile osservare che lo stesso ricatto si ripete ovunque. La sfida è osservare come reagiamo quando un individuo è inseguito dagli islamisti. La sfida è osservare come le società laiche difendono i propri principi quando sono attaccate alla base da ‘imprenditori della rabbia’ che confondono la religione con la violenza. In una società laica, ognuno è libero di credere o non credere, ma nessuno ha il diritto di imporre i suoi divieti religiosi a tutti gli altri: va da sé che minacciare un insegnante in nome di un divieto religioso tradisce una totale mancanza di comprensione di questi principi”. 
Teme che l’assassinio di Samuel Paty sia il preambolo di un futuro oscuro. “Se c’è una cosa che temo, è che il nuovo imperativo del sistema educativo nazionale francese (‘formare meglio gli insegnanti alla laicità’) servirà solo a mettere ancora una volta l’insegnante sulla sedia elettrica. Queste due questioni, la formazione degli insegnanti alla laicità e il nome di Samuel Paty, continuano a essere sovrapposte l’una all’altra, come se un errore pedagogico fosse la causa dell’assassinio. Questo è sia moralmente indecente che intellettualmente disonesto. Come ne ‘Il Processo’ di Franz Kafka, tutto parte da una calunnia: è da questo che bisogna partire per raccontare quello che è successo veramente”.
All’alba del’11 settembre 1977, nella prigione delle Baumettes di Marsiglia, fu ghigliottinato un tunisino, Hamida Djandoubi, colpevole di aver strangolato, dopo orribili sevizie, una ragazza. Fu l’ultimo decapitato legalmente di Francia. Quattro anni dopo, Robert Badinter metterà al bando la pena capitale. Ma quarant’anni dopo ecco tornare la ghigliottina nelle strade francesi sotto forma di una decapitazione senza colpa, senza processo, senza testimoni, senza accuse, senza difesa. Soltanto la testa di un professore che rotola al grido di Allah è il più grande.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.