AP Photo/Alberto Pezzali  

Sentire l'arte

Gli odori e le fragranze sono le vere opere d'arte totali che producono desiderio

Francesco Bonami

L’esperimento di Anicka Yi alla Tate Modern di Londra

Chi prevedeva o temeva la smaterializzazione dell’arte attraverso gli Nft (Non-fungible token) con opere d’arte diventate QR Code, codici a barre e crypto mutazioni è già in ritardo. L’arte secondo Anicka Yi, artista di origini coreane trapiantata negli Stati Uniti, può essere anche un semplice odore, un profumo, un puzzo. Lo dimostrerà nell’immensa Turbine Hall della Tate Modern a Londra, con il suo nuovo progetto commissionato da Hyundai. I visitatori, se il Covid non gli ha mandato in tilt l’olfatto, annuseranno arte anziché guardarla. Odori e fragranze umane, femminili probabilmente, di pelli e parti intime, possibilmente pulite, anche se l’artista considera patologica l’ossessione occidentale con la pulizia. Gli anticorpi nel pulito s’indeboliscono, muoiono. Nel  sudore e nelle secrezioni, come soldati nel fango delle trincee, si rafforzano. Siamo troppo visivi e poco sensibili, pensa la Yi. Abbracciata dal mondo delle arti visive si sente più filosofa che artista. Ci trasforma non quello che vediamo ma ciò che si nasconde al nostro sguardo, vedi appunto i virus che passano i confini come e quando vogliono. Sentire un odore è importante quanto guardare un immagine.  Lo aveva già intuito nel 1981 il regista John Waters con il suo film “Polyester”. Nelle sale cinematografiche veniva dato un cartoncino tipo quello del gratta e vinci. Si chiamava “Odorama”. Quando sullo schermo apparivano delle scarpe da tennis sporche e vecchie e un numerino lo spettatore doveva grattare il numero corrispondente sul cartoncino e annusare il puzzo dei piedi. Erano principalmente odori goliardici e sgradevoli. Una barzelletta olfattiva. 

 

La Yi è più seria. La fragranza umana o animale è per lei un modo per comprendere meglio la realtà e farne parte. Ci aveva già riflettuto l’artista afroamericano David  Hammons a Venezia alla Fondazione Pinault a Punta della Dogana. Una sua opera consisteva nel nascondere negli anfratti dell’architettura gocce di essenza di odore di puzzola. Il risultato era un po’ ambiguo. Se uno non era esperto di puzzole poteva confonderne l’odore con quello di un tartufo. Il tentativo di creare disagio falliva, trasformando la sensazione sgradevole in appetito. L’obiettivo di Anicka Yi è ben diverso. In un mondo dell’arte ossessionato sempre più da realtà virtuali e aumentate lei vuol far capire che le dimensioni percettive possono essere più di tre o quattro o cinque. Dimensioni molto più efficaci di quelle di un immagine in 3D che consentono di entraci dentro. La sua arte non vuole essere un trucco né creare disagio, ma anzi produrre desiderio. Siamo attratti molto più dalla fragranza del corpo altrui che dall’aspetto fisico. Oppure ne siamo respinti se la – o il – super model nonostante la sua bellezza emana puzzo di sudore. Se un quadro di Caravaggio potesse farci sentire il fetore che doveva impregnare le bettole buie dove i suoi personaggi passavano il tempo chissà se il nostro giudizio su quelle immagini sarebbe lo stesso.

 

È interessante come anche nel film “Parasite”, opera di un altro coreano Bong Joon-ho, sia un odore invisibile a scatenare il tracollo tragico del film. Quando la famiglia di parassiti che fanno finta di non conoscersi si rende conto di avere lo stesso odore, insospettendo il padrone. Se l’arte sta perdendo, come dicevamo all’inizio, la propria fisicità attraverso i Nft, Anicka Yi dice invece che la possiamo salvare o ritrovare proprio attraverso tutto ciò che d’invisibilmente fisico  portiamo sui nostri corpi, dai batteri ai virus, agli odori. L’odore diventa la vera opera d’arte totale, che ci circonda completamente, che riempie tutto lo spazio e che, come l’odore di fritto dei ristoranti, possiamo anche portare a casa con noi, dove non dovremo più temere che la colf butti nella spazzatura la ciotola piena di cozze dell’artista belga Marcel Broodthaers, ma che porti a lavare in tintoria l’abito con cui siamo stati alla Tate. Se avere naso e fiuto era un modo di dire, in futuro potrebbe essere una qualità indispensabile per godersi l’arte.

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