FACCE DISPARI

Alberto Ventura, l'Islam e le amnesie dell'Occidente

Francesco Palmieri

Uno dei massimi studiosi di esoterismo islamico ci spiega perché l'approccio migliore per le missioni estere italiane è quello usato negli anni Ottanta in Libano: "E' necessaria una conoscenza tridimensionale dei popoli e delle culture tra cui si sta operando"

Folgorato, quando era ancora una matricola che non sapeva bene cosa fare, dall’incontro con il grande islamista Alessandro Bausani, Alberto Ventura decise quale sarebbe stata la sua strada. Oggi, a sessantotto anni, è tra i massimi studiosi di esoterismo islamico e sufismo, autore di numerose pubblicazioni e della curatela per la più accreditata traduzione del Corano nella nostra lingua. Esponente di un orientalismo peculiare come quello italiano d’una volta, che non badava solamente ai dati sociopolitici e statistici, ma leggeva la contemporaneità alla luce chiarificatrice di un passato sganciato dallo storicismo, Ventura ha diretto il Dipartimento di Studi Asiatici a L’Orientale di Napoli ed è ordinario di Storia dei Paesi islamici all’Università della Calabria.

All’indomani del precipitoso ritiro occidentale dall’Afghanistan, e del ritorno dei talebani al governo del paese, Ventura cita a mo’ d’esempio e rimpiange, quale virtuoso paradigma per tutti, l’approccio nostrano alle missioni all’estero come era declinato negli anni Ottanta in Libano.

 

Cosa aveva di speciale?

Una caratteristica fondamentale: la consapevolezza che è necessaria una conoscenza tridimensionale dei popoli e delle culture tra cui si sta operando.

 

È un po’ quel che fecero gli americani quando, in vista dell’occupazione del Giappone, commissionarono uno studio all’antropologa Ruth Benedict, che poi scrisse ‘Il crisantemo e la spada’. Non è avvenuto con l’Afghanistan?

L’approccio culturale purtroppo non è più praticato. Prevale dappertutto la mentalità dell’uno vale uno, sebbene grandi diplomatici della storia come von Metternich c’insegnino che bisogna disporre tra i consulenti persino di teologi e di filosofi. Per rimanere in tempi più recenti, voglio ricordare il generale Franco Angioni, che comandò il contingente italiano della Forza Multinazionale in Libano tra l’82 e l’84. Mi raccontava che la sua maggior preoccupazione non fu l’addestramento delle truppe sotto il profilo tecnico, fattore facilmente risolvibile, bensì la preparazione socioculturale degli ufficiali, i quali furono provveduti di un quadro complessivo e dettagliato della situazione locale. Perché è questa mancata conoscenza a costituire la minaccia maggiore.

 

Si trattava di una iniziativa personale?

Molto pesò, naturalmente, la sensibilità individuale del generale Angioni, mentre diversi suoi colleghi anche di altri Paesi ne mostravano di meno. Quella, tuttavia, era una linea condivisa dal suo staff e il Casd, il Centro alti studi per la difesa, si diede da fare con attività di formazione specifiche. Oggi non saprei: ho assistito a master di intelligence in cui le disamine mi sono parse piuttosto superficiali, non molto diverse da quelle che potrebbe fare un comune cittadino su materiale di seconda mano. Eppure chi si sognerebbe mai di sviluppare un’analisi sulla Francia, gli Stati Uniti o la Germania senza conoscerne la lingua, le tradizioni, la mentalità?

 

Cosa ha influito sull’abbassamento di livello?

Di certo il nostro sistema scolastico e universitario, sempre più calibrato sui grandi numeri. Prendiamo la lingua urdu, parlata in Pakistan e dai musulmani in India, i cui corsi sono stati soppressi per scarsità di studenti. E pensare che era insegnata all’Orientale di Napoli sin dalla fine dell’Ottocento e che la prima grammatica di urdu in una lingua europea fu redatta in italiano. È un errore enorme cancellare alcune materie perché considerate “di nicchia”. Anche se lo sono, restano importanti per la politica estera di un paese. Vedi il caso dell’Afghanistan, che non sarà centrale per la formazione degli studenti italiani eppure, oggi ce ne ricordiamo, si rivela essenziale conoscerlo meglio per tutto l’Occidente.

 

Cosa sta accadendo in quel paese? Cosa manca all’opinione pubblica nella lettura dei fatti?

Alla competenza si è sostituita, negli ultimi anni, la febbre della notizia a effetto, spesso trattata con superficialità. E la febbre dell’immagine che fa fede solo perché suggestiva. Ricordo che per anni, quando si parlava di Isis, i notiziari rimandavano il video di una presunta preghiera dei miliziani vestiti di nero e con le facce coperte. Di certo un filmato d’impatto, ma una chiara bufala: bastava osservare che tenevano una disposizione a ‘elle’, laddove i musulmani pregano in fila perché devono farlo secondo un preciso orientamento cardinale. Poi c’è l’impiego di immagini non false, però tendenti a veicolare una specifica immagine di alcuni Paesi: mentre si racconta la politica in Iraq, passano sullo schermo spezzoni di mercati rionali con le massaie che camminano… come se parlando di politica interna italiana, mandassero le immagini del mercato di Ponte Milvio, sicché in tanti sono convinti che in quegli Stati non vi sia una vita accademica, industriale, politica, e che si riduca tutto ai mercatini degradati e alle periferie disastrate. Così si forma una mentalità diffusa, una percezione immaginaria che deforma la realtà.

 

È la riproposizione di quell’orientalismo nell’accezione negativa di cui scrisse Edward W. Said?

Said in linea generale aveva ragione, anche se le sue tesi hanno suscitato innamoramenti un po’ eccessivi. Sicuramente l’esotismo è cosa antica: mi ricordo i libri di Edmondo De Amicis su Costantinopoli e sul Marocco nella biblioteca di mio nonno, con le loro meravigliose illustrazioni. Per esempio quella di un harem, di cui si sottolineava l’impenetrabilità. E io, da bambino, mi chiedevo come fosse stato possibile, se era davvero inaccessibile, avere catturato nei dettagli quelle scenette di odalische che fumavano a corredo del testo…

 

Una maggiore considerazione degli aspetti culturali avrebbe determinato gli eventi afghani in modo diverso? E ora, bisogna, fidarsi e quanto dei talebani?

L’occupazione militare degli americani, cui si sono aggregati altri paesi, ha dimostrato ai talebani che se vogliono governare l’Afghanistan non possono tenere lo stesso atteggiamento di vent’anni fa. È una questione d’immagine verso l’Occidente. Che si traduca in azioni concrete però dubito molto. Cosa hanno fatto, dagli accordi di Doha a oggi, nei confronti di Al Qaeda? A parole molto, nella realtà direi nulla. Cosa faranno nei confronti dell’Isis-k? Chiunque conosca la storia afghana si rende conto di quanto, da Alessandro Magno ai sovietici, sia stato difficile controllare il paese. Non è solo questione di conflitti tra gruppi armati o di signori della guerra: la resistenza del figlio di Massoud risponde anche a una diversità di lingua e di etnia in uno stato dove i tagiki nel nord, vicini alla cultura iranica e con un proprio idioma, non possono facilmente amalgamarsi con i pashtun.

 

Tuttavia l’impegno a non ospitare alcuna base terroristica nel paese è tra quelli imprescindibili con la comunità internazionale.

I talebani hanno sempre osteggiato l’arrivo e la presenza di arabi jihadisti e possono ancor meno tollerare la presenza dell’Isis Khorasan, che si richiama alla terminologia medievale del califfato per la ricostruzione di un’entità transnazionale pur in assenza di un centro. Bisogna vedere se riusciranno a estirpare una presenza che, malgrado sia esigua, pesa tantissimo. Basta qualche migliaio di miliziani nell’est del paese, o addirittura una decina di persone che si facciano artefici di un attentato clamoroso, come quello all’aeroporto di Kabul, per ottenere una visibilità maggiore, a livello globale, di quanto non ne abbia un esercito impegnato in scontri campali ma oscuri, di cui non parlano i media. I talebani riusciranno a debellare queste sacche e a controllare davvero il paese? Ribadisco: credo di no. Anche da questa grave difficoltà interna deriva il volto conciliante che stanno cercando di mostrare al mondo.

 

Eppure la feroce repressione, paventata o già consumata verso chi ha collaborato con gli stranieri, tradisce un’altra faccia. Si tratta di episodi isolati?

Purtroppo in Occidente usiamo edulcorare i fatti rivestendoli di termini umanitari e ipocriti. Diciamolo con chiarezza: in Afghanistan c’è stata per vent’anni una occupazione militare a tutti gli effetti. E appena gli occupanti se ne vanno, da che mondo è mondo, la reazione è nota: si pensi a cosa successe ai collaborazionisti francesi quando i tedeschi si ritirarono nell’ultima guerra mondiale. Che adesso qualche talebano se la prenda con chi ha lavorato per gli stranieri, è nella logica delle cose: molto triste ma non tipica solo dell’Afghanistan. È fuor di dubbio comunque che la fase di uscita dal paese sia stata gravemente viziata da errori. Sul precipitoso allontanamento degli americani ha influito la valutazione che l’opinione pubblica interna fosse stanca di questa guerra dopo vent’anni. Ora però è frustrata per una ritirata con la coda tra le gambe.

 

Qual era l’alternativa?

Garantirsi maggiormente circa l’effettiva applicazione degli accordi, perché una sigla in calce a un pezzo di carta non basta. E valutare meglio i tempi che avrebbero impiegato i talebani a riprendersi il potere e l’esercito afghano a dissolversi dinanzi a loro. Il problema è sempre lo stesso: le analisi mancano di profondità storica. Si fermano tutt’al più all’altroieri.

 

Sono da temere ripercussioni terroristiche nel mondo occidentale?

Sì, se le politiche continuano a essere miopi e orientate sul breve periodo. Dobbiamo stare allerta: anche l’attentato di Kabul potrebbe suscitare fra i ‘cani sciolti’ fenomeni di emulazione che s’ispirano all’Isis senza che sia questo a organizzarli.

 

Qual è la situazione attuale nel mondo islamico?

Un mondo islamico sic et simpliciter non esiste. È come se parlassimo di mondo cristiano. È un’ottica provinciale. La prima cosa che dico ai miei studenti è che sì, insegno Storia dei Paesi islamici, ma si tratta di una dizione ministeriale senza molto senso. Guardando al ‘mondo islamico’ dobbiamo precisare di cosa parliamo: del Nord Africa, del mondo arabo propriamente detto, di Iran, Pakistan, Indonesia e così via…

 

Non se ne può trarre un dato generale?

In linea generale, e generalizzante, si registra ovunque una certa irrequietezza soprattutto perché i Paesi musulmani fanno da fascia intermedia, e sono come stretti fra due ganasce: il nord e il sud del mondo, ossia il mondo avanzato e quello sottosviluppato. Su queste inquietudini pesano molto gli atteggiamenti erronei dell’Occidente.

 

Un esempio al di là dell’Afghanistan?

Quello clamoroso dell’Egitto. Quando dico “piazza Tien’anmen” tutti sanno di cosa sto parlando e la commemorano ogni anno. Ma se cito il massacro dei dimostranti contro il golpe di al-Sisi in piazza Rab’ia al-’Adawiyya al Cairo, nel 2013, chi si ricorda? In quanti lo conoscono? Chi lo commemora in Europa? È vero che il precedente regime dei Fratelli Musulmani era islamista, ma è anche vero che vinse regolari elezioni e non era fondamentalista né radicale o terrorista. L’Occidente s’è svegliato rispetto all’attuale regime egiziano solo nel 2016 dopo il caso Regeni. Fosse accaduto altrove quel che avvenne nel 2013 in Egitto, con un colpo di stato militare così sanguinoso, avremmo manifestato per la libertà, scatenato proteste. Perciò quando gli occidentali parlano di garantire la democrazia o i diritti umani, come nel caso dell’Afghanistan, non riscuotono grande credibilità presso i Paesi musulmani. Per una clamorosa ipocrisia che poi si paga tutta.

 

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