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Eisenhüttenstadt, un sogno architettonico realsocialista, ormai senza abitanti

Gianluca Pardelli

La città tedesca degli impianti siderurgici nata come Stalinstadt è un idillio urbano senza tempo, che ora il tempo della Germania unita ha ridotto in scenario post apocalittico

Nell’estremo oriente della Germania, lungo il corso del fiume Oder, sorge una città di forme precise e memorie assopite. La sua dolce austerità si erge timida e lontana, come a volersi nascondere dallo sguardo attento di chi segue sempre il sentiero battuto e mai riesce a perdersi in digressioni fuori tema, fuori tempo, fuori luogo. La periferia della città è lambita dalla linea invisibile del confine tedesco-polacco, che qui scorre discreto e sottile, attraversando monotone e rasserenanti distese di nebbie, pianure e paludi. L’aria è umida e opaca, i rumori sono ovattati e i silenzi rimbombano più forti dei suoni. C’è odore di Prussia, Patto di Varsavia ed erba bagnata. Potrebbe essere il set di una delle tante perle della cinematografia del blocco orientale oppure lo sfondo di una fiaba dei Grimm.

 

Oltre la città che dorme, una moderna pista ciclabile accompagna le acque scure del fiume fino alle spiagge del Baltico. Pochi sono però i pedali che osano lasciare la germanica sicurezza del percorso e la sua tediosa dovizia di cifre e segnali. Eisenhüttenstadt non è citata spesso nelle guide turistiche, le sue meraviglie architettoniche non sono decantante nelle brochure delle agenzie di viaggio e, tra un “attraversamento cervi” e l’ennesimo cartello color bruno di qualche rovina teutonica, è facile ignorare le sparute indicazioni stradali che conducono verso questa realtà urbana dal nome così squisitamente realsocialista, letteralmente: città degli impianti siderurgici.

La genesi industriale di Eisenhüttenstadt si palesa prepotente ai margini settentrionali del centro urbano, là dove svettano gli altoforni dell’Eko Stahl, l’enorme complesso di lavorazione del ferro che nel 1950 diede inizio alla costruzione di questa utopia di cemento e acciaio sorta nel nulla delle radure del Brandeburgo, a un’ora e mezzo di viaggio da Berlino est. La fonetica inganna, non c’è nessun ossimoro, Eko è l’acronimo di Eisenhüttenkombinat ost, “complesso siderurgico est”, e con l’ecologia non c’entra niente.

“Pane, pace e acciaio” era lo slogan che troneggiava invece all’entrata dei cantieri da cui nacquero i primi complessi abitativi di questa città che cresceva in maniera esponenziale secondo lo schema dei piani quinquennali mutuati dall’Unione sovietica di Stalin. Non a caso, Eisenhüttenstadt fu inizialmente battezzata Stalinstadt, città Stalin, una sorta di Stalingrado di lingua tedesca, e solo nel 1961, a destalinizzazione ultimata, assunse il nome attuale. Noncurante dei problemi della toponomastica ufficiale, la popolazione della città cresceva intanto in maniera esponenziale, passando da appena tremila abitanti nel 1953 a quasi quarantamila nel 1968, per poi superare abbondantemente i cinquantamila nel 1988, due anni prima dell’implosione della Repubblica democratica tedesca.

“Con il ferro sovietico e il carbone polacco creiamo acciaio tedesco” recitava un altro motto di ecumenica propaganda stampato sui manifesti che adornavano le strade nei giorni di festa. Aldilà della retorica pomposa e dei drappi rossi a sventolare dalle gru, Eisenhüttenstadt era però una vera e propria città modello: architetture eleganti e funzionali, strade ampie con marciapiedi che sembravano corsie, moltissimi giardini e aeree verdi dove respirare lontano dal chiasso a gasolio delle trabant, piazze immense (e un po’ desolate) perfette per le parate del Primo maggio, e una gran profusione di mosaici e monumenti stile Urss a completare il tutto.

 

Un idillio urbano senza tempo, quasi il disegno di un rebus, meravigliosamente discreto nella sua eterna inamovibilità, Eisenhüttenstadt pareva essere immune ai cambianti dell’uomo e delle sue idee. Ma il Brandeburgo non è un’ucronia e il tempo scorre anche qui sempre troppo veloce.

Il crollo del Muro di Berlino e il frantumarsi del sogno socialista ebbero conseguenze drastiche in tutta la Germania dell’est e in particolare ad Eisenhüttenstadt. Aldilà della retorica sull’unificazione agognata e delle immagini trite di picconi e graffiti, la fine della Rdt ha profondamente scosso l’intera società tedesca orientale. E non sempre in positivo. La fine dell’illusione non è stata di certo tragica come in Jugoslavia o Unione sovietica, ma la nostalgia per un’epoca ovattata, dove la vita dell’individuo sembrava semplice come se fosse scritta – e costretta – su un foglio di carta, è ancora molto forte a est della capitale. La nostalgia non è però solo su un sentimento patetico, un vano e melenso correr dietro alla gioventù perduta.

Eisenhüttenstadt ha perso, infatti, oltre metà dei suoi abitanti, interi edifici troneggiano abbandonanti come in uno scenario post apocalittico, l’ArcelorMittal si è comprata gli impianti siderurgici dimezzandone la produzione e mandando a casa centinaia di operai, le offerte culturali scarseggiano e la città ha assunto un’aria vuota e spettrale. Il rebus è stato risolto. Ma la soluzione sembra essere quella sbagliata.
 

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