Emanuele Severino nel 2017 (foto LaPresse) 

idee controcorrente

Lo strano amore degli italiani per Severino, profeta dell'essere

Sergio Belardinelli

Il popolo più scettico, più superstizioso e più disincantato tra quelli occidentali fa eccezione per la sua filosofia: l'annuncio dell'eternità di tutte le cose. Forse perché viene incontro al nostro desiderio profondo di una gioia che è da sempre

Chiunque si occupi a vario titolo della filosofia italiana degli ultimi cinquant’anni si trova a fare i conti con un personaggio a dir poco controverso: Emanuele Severino. Incominciai a leggere le sue opere che ero studente. Allora, parlo dell’inizio degli anni Settanta, la fama del personaggio Severino era legata soprattutto al processo col quale lo avevano allontanato dall’Università cattolica di Milano, reo di un pensiero considerato non compatibile con la dottrina della chiesa. Ma nessuno avrebbe mai immaginato il successo che di lì a poco Severino avrebbe riscosso non soltanto tra gli addetti ai lavori, ma anche tra il grande pubblico. I suoi articoli sul Corriere della Sera, le sue partecipazioni ai vari festival di filosofia, la sua attività di conferenziere riuscirono a rendere familiare un pensiero a dir poco impervio e certamente, come amava definirlo lui stesso, inaudito. Le sue due opere fondamentali: Ritornare a Parmenide e La struttura originaria, alle quali continuerà a riferirsi anche nella sua ricca produzione posteriore, le lessi da studente.  

Ciò che ricordo di quella lettura è soprattutto una gran fatica, l’impressione di aver capito solo in parte certe argomentazioni e un istintivo rifiuto della sua tesi fondamentale circa l’eternità di tutto. Già, proprio così, l’eternità di tutto. Siccome “l’essere è e il non essere non è”, secondo Severino tutto ciò che è, dalle stelle del cielo, ai passeri, alle orme che lasciamo camminando sulla sabbia, per il semplice fatto di essere, è eternamente, si oppone eternamente al nulla. Di qui quella che Severino chiama la “follia” dell’Occidente: che l’essere possa non essere più o non essere ancora. La più granitica delle evidenze, almeno per me, e cioè che tutto passa, quindi la contingenza di tutto ciò che è nel mondo e, in particolare, la contingenza di noi stessi (si nasce e si muore) liquidata come somma follia. L’eternità del mio io, anziché procurarmi soddisfazione, mi dava le vertigini. Mi vedevo sbrindellato in una serie infinita di me stessi, tutti ugualmente eterni e, ahimè, tutti ugualmente sconnessi dal Sergio che sono e che muta di giorno in giorno, spesso di ora in ora. Roba da non crederci, inaudita appunto. Andate a dire a un siciliano, a un napoletano, a un romano o a un fiorentino che tutto è eterno. Eppure stando al successo che i libri di Severino hanno avuto in Italia (non so se l’hanno ancora), si direbbe che la sua tesi abbia parecchi estimatori proprio tra il popolo più scettico, più superstizioso e più disincantato tra quelli occidentali. Un vero mistero.

Per non dire della complessità degli argomenti di Severino. Per quanto mi riguarda posso dire di aver avuto la fortuna di avere come guida fin dai tempi in cui eravamo studenti un caro amico che sarebbe diventato uno dei suoi lettori più intelligenti e severi (senza che nessuno in questo strano paese se ne sia accorto, ovviamente): Luigi Cimmino. Ciò che io sentivo con animo perturbato e commosso, lui me lo faceva vedere con mente pura. Ancora oggi è soltanto parlando con lui o leggendo i suoi scritti che trovo argomenti decisivi che, a rigor di logica, mostrano l’insostenibilità dell’eternità di ogni cosa, entrando nel cuore delle argomentazioni stesse di Severino, non contrapponendovi semplicemente una sensazione come faccio io. 

“Dove mai va a finire l’esistenza quando il povero Socrate passa a miglior vita?”, scrive Severino in Ritornare a Parmenide, con l’intento di dimostrare la contraddittorietà di una esistenza che è diventata inesistenza. Trattasi di un busillis che ha a che fare con la convinzione da parte di Severino che l’esistenza sia una proprietà, un attributo dell’essere, sul quale non intendo addentrarmi. D’istinto e da Cimmino ho imparato comunque che quando diciamo che “Socrate non esiste più” non è all’esistenza che neghiamo esistenza, bensì a Socrate, il quale prima esisteva e a un certo punto non esiste più. E’ morto. Ci può dispiacere e persino scandalizzare, ma in questo non c’è alcuna contraddizione. Proprio come dice Cimmino, il mondo eterno di cui parla Severino è semplicemente “un mondo dipinto e irreale”, un mondo che non vive e che riduce l’eternità a una “colossale serie di fermo-immagine”. Molto di più di ciò che, a rigore, razionalmente, possiamo concepire e molto di meno di ciò che effettivamente desideriamo.

L’impressione che ho è che gran parte del successo di Severino dipenda da questo suo involontario venire incontro ai nostri desideri più profondi, magari annunciando una “gioia” che è da sempre, nonostante la follia nascosta che manda avanti la civiltà occidentale. Messa così, spero che Severino non si rivolti nella tomba, assomiglia molto a una fede. Ma questo nulla toglie allo spessore profondo del suo pensiero, né giustifica la generale mancanza di vere argomentazioni che, salvo rarissime eccezioni, contraddistingue sia i suoi critici che i suoi estimatori, specialmente quando sono anch’essi filosofi.

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