Giorgio Li Calzi, in silenzio sotto le stelle del jazz

Trombettista e direttore artistico del Festival Jazz di Torino e del CHAMOISic. Esploratore pigro. Dai jingle pubblicitari alle jam sassion. La tradizione e il cambiamento. E le bande di paese, che per fortuna ci sono ancora

Maurizio Baruffaldi

Ha suonato con mezzo mondo. Frase iperbole che nel caso di Giorgio Li Calzi, trombettista e compositore, suona invece esatta. In servizio permanente sotto le stelle del jazz, Giorgio non si fa mancare niente. In queste settimane è immerso nella direzione artistica (insieme a Diego Borotti, compositore e saxofonista) del Festival Jazz di Torino, in scena dal 19 al 27 giugno, oltre che nella raccolta fondi e programmazione dell’altra sua creatura, il festival CHAMOISic a Chamois, che andrà in scena tra luglio e agosto.

 

“Sono lento, faccio l’organizzatore da disorganizzato, quindi sono sempre in ritardo. Con senso di colpa”. Esordisce così quando finalmente riusciamo a ritagliarci un tempo al telefono, dopo aver abbandonato la soluzione Skype, “dovrei andare a recuperare la password…” Basta la voce: in fondo è tutta una questione di suono. E di silenzi. E lui ha appena pubblicato una sua personale versione di Enjoy the silence, nella quale ha innescato, sull’asse digitale New York/Torino, gli “assoli da un altro pianeta” di Arto Lindsay. Il chitarrista che sarà uno dei più golosi appuntamenti al Festival di Torino, la cui esplosiva programmazione si può sgranare come un rosario su Torinojazzfestival.

  

 

L’artista si ritrova imprenditore.

“E deve imparare a far di conto. Per dire: fino al 2018 il TJF si faceva ad aprile, in piazza, temporali che vanno e vengono, concerti che saltano, butti un sacco di soldi. Quando ci hanno chiamato a dirigere abbiamo dirottato i concerti alle OGR Torino, l'ex officina di grandi riparazioni, diventata oggi una sorta di cattedrale. Prima della pandemia ospitava 1.200 posti seduti e il doppio in piedi. Adesso saranno la metà. Abbiamo chiesto a tutti gli artisti dell’edizione 2021 di fare un doppio concerto allo stesso cachet, così noi recuperiamo l’introito e il pubblico recupera il concerto”.

 

Dare i numeri, da una parte, e dall’altra avere la presunzione che quello che è bene per te sia bene comune.

“Per un direttore artistico non può essere altrimenti. Nei Festival cerchi di portare riflessioni. Il nostro quotidiano si fonda su rassicurazioni, l’arte invece può, forse deve, osare. Dare prospettive inaspettate. Nel teatro la comunità si raccoglie per aprirsi. Entri, e non sai come ne esci”.

 

Sgattaiolare fuori dalla grande aspirazione dell’intrattenimento.

“Noi dobbiamo portare da un’altra parte, lontano dal mediatico. Chi viene al Festival ha intimamente voglia, bisogno di scoprire, e stupirsi. Ci si allena anche, al cambiamento”.

 

‘La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri’, è la citazione di Gustav Mahler nella presentazione del Festival di Diego Borotti. Come si fa?

“Partendo dalla comunicazione, per esempio. Oggi viviamo in un crossover permanente, la cultura pop rimastica il passato, allora come claim abbiamo scelto immagini che parlassero a un pubblico eterogeneo, non solo a vecchi tromboni del jazz come me: ci siamo affidati al collettivo torinese Bounty KillArt, il visual di questa edizione saranno le loro sculture, statue irriverenti verso il classico, ma che allo stesso tempo lo usano e riconoscono. Tipo una Venere dei Medici con in mano il Mocio Vileda”.

 

Deraglio qualche secondo sul monitor per andare a spiluccare le foto di queste statue antiche alle prese con oggetti da terzo millennio.

“Un’idea semplice, ma rispecchia l’intenzione, e soprattutto fa lavorare artisti del territorio. Cerco di farli conoscere fuori dalla cerchia consolidata. Un altro sarà Donato Sansone, geniale animatore: suo sarà il teaser. Faccio a loro quello che vorrei facessero a me: Caro Giorgio, con chi vorresti suonare? Prego! Se interagisci con un artista di New York, ricevi uno stimolo incredibile, diventi migliore. Pensa che in Norvegia, dove già negli anni 60 c’erano reti tra festival jazz, pagano gli artisti per fare tournée in America. Di ritorno, poi, la loro ospitata avrà ancora più valore. E infatti c’è una scena musicale eterogenea e straordinaria. Noi qui invece tutti a marchettare, che dobbiamo arrangiarci, perché nessuno ci sente.”

 

Ci sarebbe da rivedere qualche stereotipo sulla freddezza del nord. O semplicemente valutare l’esistenza di un diverso calore. Intanto saliamo nel nostro Nord, a Chamois, nella valle del Cervino, dove da dodici anni porti a casa il Festival CHAMOISic. È il comune più alto d’Italia. Quello più vicino al cielo.

“Certo, il cielo ce l’hai addosso. Ma credo che a rendere questa sorta di magia sia il fatto che non ci siano le auto. Raggiungi il comune solo dalla funivia, 880 metri di dislivello. O 6 km a piedi di sterrata. Insomma, hai un motivo concreto per andarci. Quando arrivi poi sei già in un palcoscenico. Questa edizione saranno due giorni a Chamois, 31 luglio e 1 agosto, più altri concerti nei comuni vicini, nelle valli intorno. Ogni anno non sappiamo se ce la si farà. Ma sappiamo che dobbiamo farcela.”

 

Perché resister non si può, al ritmo del jazz.

“E allora bisogna presentare qualcosa che non sia ostile, significa chiedersi: dove siamo, chi ci ospita, che esigenze ha. A Chamois ancora di più. Ci sforziamo di spiegare, di avvicinare a quello che proporremo. Non possiamo portare Bob Dylan, si creerebbe una violenza, un deturpamento. A Chamois ci sono due hotel aperti, e tre chiusi da non so più quanto. Novantanove abitanti. L’ultima funivia sale alle 22.30. Se la perdi resti dove sei. Sei sempre in una dimensione di coprifuoco. Hai sempre delle regole.”

 

L’anno scorso ci avete fatto un film, al posto del festival.

“Abbiamo filmato otto artisti, che potessero raccontare cosa vuol dire un paese che vive l’isolamento sempre, anche senza pandemia. A parte i brevi periodi a cavallo di Natale, Pasqua e Ferragosto. Le performance filmate di questi artisti volevano popolarlo. Idealmente, perché non c’era nessun pubblico.”

 

  

Nel video che accompagna la vostra Enjoy the silence c’è invece una Torino disabitata, fotografata da Alessandro Albert durante il lockdown. Una città in bianco e nero, con i palazzi e le strade che si piegano, lacerano, deformano, si staccano e inghiottono. “E quel duomo che cade come un telo teatrale. È una specie di buco nell’anima, un lutto al quale ti adatti. E alla fine, ritorna la prima immagine, però colorata dal figlio di Massimo Violato, autore del video. La realtà è sempre la stessa, ma vista con gli occhi di un bambino”.

  

Ti senti un esploratore?

“Solo se può esistere un esploratore pigro. La maggior parte dei miei incontri nascono nel caso. Ho preso spesso quello che trovavo per strada. Non so, frequentando i Murazzi, per esempio. Mamady Koyaté l’ho sentito cantare ‘O sole mio’, con l’accento francofono, e m’è venuto di proporgli di fare un disco di canzoni napoletane, dove non ci suona nemmeno un napoletano. In questo anno poi che eravamo tutti bloccati siamo stati più vicini. Ho lavorato tanto e con artisti di tutto il mondo: tutti nel nostro studio, cercando di sopravvivere, facendo le cose che volevamo fare, nel modo migliore. Alla fine si può chiamare fortuna”.

 

La fortuna di vivere adesso, questo tempo sbandato, Fossati docet. Tu sbandi tranquillamente dalla rockstar brasiliana Lenine, a Wolfgang Flür dei Kraftwerk, per stare a un singolo esempio. Dal suono bollente, “di chi suda e percuote”, a quello sintetico, da tavoletta inanimata e suoni dello spazio.

“Gli stimoli opposti sono fantastici. Io vorrei, cerco, con tutti, di essere sempre più minimalista”.

 

Togliere è sempre una conquista. Ma noi continuiamo ad aggiungere. La fitta rete di connubi nostrani. Il teatro, ultimo una Medea, i reading accanto ai maggiori scrittori italiani. “Ho scoperto libri che non avrei mai letto. E che anche la musica è qualcosa da raccontare”. Un Premio Ciampi vinto insieme a un personaggio fuori dal jazz come Johnson Righeira.

“Ci conosciamo da 40 anni. Fu travolto da un successo clamoroso che aveva vent’anni, o poco più. Io avevo qualche anno meno. Abbiamo sempre fatto cose insieme. Siamo sempre rimasti amici”.

 

Anche tu hai avuto un successo pazzesco. Dai tuoi, di vent’anni, quando inizi a comporre jingles per radio e tv, Birra Moretti, Pampers, FIAT, i tre più clamorosi. La tromba viene dopo.

“Ho iniziata a suonarla a 25 anni, quando già suonavo un po’ di tutto, e incassavo alla grande con i jingles. Mi verrebbe da dire che ho smesso di fare soldi veri, grazie alla tromba. Andavo a queste jam session a Milano e per avere il coraggio di suonare uno strumento alle prime armi ho imparato anche a bere, a 25 anni. Come bevitore rimango però di scarso talento.”

 

Come trombettista ti è andata meglio. Avevi una predisposizione?

“Credo. Nonostante abbia iniziato tardi il suono l’ho trovato alla svelta. La tromba è un estensione della voce, è il tuo suono. Ed è una continua ricerca”.

 

Un’autoanalisi permanente. Baciando un bocchino. Lo so, suona gretto.

“Ci sono anche le pompe. E quando scrivono: Giorgio Li Calzi tromba, è molto ben augurale. Più che un bacio è però una pernacchia, quello che fanno le labbra per ottenere il suono.”

  

La dissacrazione è completa. Torniamo alla nobiltà di questo suono.

“Il labbro è banalmente un muscolo. Noi trombettisti ci prepariamo per raggiungere la nota più alta possibile, che non useremo mai. Io passo la maggior parte del mio tempo ad allenarmi. E uso la sordina Harmon, la stessa di Miles Davis, perché non voglio che i miei vicini ascoltino ogni giorno le stesse note, lo stesso esercizio. E così, il mio suono diventa quello con la sordina. Se tu parli sempre con un microfono, la tua voce finirai per riconoscerla naturale con un microfono”.

  

Più che ai locali fumosi degni di un Miles Davis, il trombettista, in Italia, fa subito pensare alle bande del paese.

“Per fortuna che ci sono, aggregatrici, fanno cultura popolare, moltissimi jazzisti che ho conosciuto hanno cominciato in una banda”.

Dove soltanto la tromba, può suonare il silenzio.

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