La pianura Padana (Wikimedia commons)

un malinconico camminare

“Io sono nato qui”. Trascinati da Belpoliti alla scoperta della Pianura

Luca Doninelli

 I luoghi, i nomi e i numi di una terra piena di vette nascoste

In montagna è differente. Lassù lo sguardo spazia verso lontananze comunque definite, il cuore si riempie d’immensità ma l’occhio sa calcolare le ore di cammino, le dimensioni dello zaino. La strada per l’Infinito richiede umiltà e pazienza ma comunque esiste, è già lì, sotto i piedi. Ma in pianura. In pianura non ci sono misure, l’occhio è insufficiente, i sensi ingannano, l’infinito è un’ipotesi, dovunque ti trovi non sei mai al centro di nulla, le ricognizioni illudono, servono le mappe, i cartografi, gli agrimensori. Bisogna fidarsi, avere nomi da interpellare, che facciano da segnaposto in un orizzonte senza orizzonte. Ci ha provato Marco Belpoliti, con questo bel libro, “Pianura” (Einaudi, pp. 292, € 19,50 euro). 

 

Non è facile andare in pianura, e raccontarla. Occorre darsi dei limiti oltre che accettare quelli naturali, occorre sapere di quante cose non potremo rendere conto, occorre spogliarsi di gran parte del proprio sapere, abbracciare la propria insufficienza. Belpoliti dirige una rivista, Doppiozero. Preferisco lui alla rivista, perché lui qualche volta si sa spogliare, sa diventare povero, viandante: lascia da parte il semiologo vagamente rolandbarthesiano intravisto in altre occasioni, si libera del bastone da passeggio dei camminatori di professione e lascia bene in vista il proprio spaesamento. 

 

Due delle chiavi possibili per leggere questo strano mondo che è la pianura (o Pianura come dice Marco) sono la nascita e la morte. Anch’io sono nato in pianura, e conosco bene il rapporto con la morte che scandisce la vita, i dolori e le fatiche di un mondo che in tutto è cambiato nei decenni tranne che in questo, nella morte cioè, che accompagna gli annunci affissi nelle piazze di paesi dove ancora tutti si conoscono, e nei cimiteri che sorvegliano il margine tra campagna e centro abitato. Ma, se è facile poter dire “mio nonno è sepolto qui”, assai meno lo è dire “io sono nato qui”, perché in pianura la nascita è peregrinante, è un paese ma è anche un paesaggio, è un’aria, è un clima, è un giorno ma anche un altro.

 

Belpoliti va in qualche modo incontro alla sua nascita, dentro un mondo che non si può abbracciare. È il bello del libro. Nomi, nomi, nomi attraversano questa pianura: nomi di chi la pianura l’ha a sua volta elaborata e restituita: Gianni Celati, John Berger, Luigi Ghirri, Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Antonio Delfini e tanti altri che l’hanno resa più conoscibile, più rappresentabile. Nomi/numi, questo è certo: la pianura si sa è politeista. Non è soltanto della nascita anagrafica che Belpoliti va in cerca, o del gusto delle cose un tempo conosciute (quel tal campo di calcio dove tirava di pallone da ragazzo, il cugino che gli fece conoscere l’amico, lo gnocco fritto, l’aria delle cose di sempre modellata dalla crudeltà e dall’anonimato dei tempi recenti  perché nessuna estetica è incomprensibile come quella di chi ha occupato la nostra casa dopo che ce n’eravamo andati); non è solo questo, è la ricerca di una nota dominante dentro un paesaggio atonale, di un hic manebimus optime che abbracciando il futuro recupera anche il passato. La nostra nascita non ce la racconta un muro, ce la raccontano due occhi, un accento, il tono di una domenica pomeriggio, di un saluto da un lato all’altro dello stradone, di qualcuno che, in un’altra lingua, riesce a evocare il “prima” da cui discendiamo. E la nebbia, sempre. 

 

La scrittura di Belpoliti ha, in questo libro, lo stesso aspetto del mondo che descrive: senza vertici, orizzontale, piatta, eppure piena di punte nascoste, come quelle dei cancelli che, da queste parti, immettono nei viali delle “proprietà”, come si chiamava al mio paese (a nord del Po) ogni sede padronale, dove il verde argentato del pioppo s’interrompeva in quello cupo dei cedri. Qui il cancello si varca nel segno di un “tu” che costella tutto il libro, scritto come risposta a una lettera ricevuta da un amico. È quell’amitié che corre nelle pagine di un Blanchot, o di un Jabès, e che costituisce il cuore stesso – come disse Paul Celan – della parola umana, della poesia. 

 

Così, in un viaggio povero di agnizioni e di novità in genere, perché tale è la pianura, lo scrittore giunge a quell’identificazione dell’io e del tu, che è il cuore stesso di ogni nascita: tu sei me. Succede non a Reggio Emilia, sua città natale, ma a Compiano, in Romagna, il paese di Ermanna Montanari, la grande attrice/genio/dea/asino/strega. “Lei è un demone della pianura, un essere che scorrazza sulle zolle appena rivoltate, che sfiora l’erba dei prati. Vola rasoterra. Non sale in cielo, non scende negli abissi. La sua dimensione è l’aperto, l’immenso indefinibile, che noi per comodità chiamiamo Pianura. Sono arrivato a casa sua, ma questa è anche la mia casa. Abito qui da secoli”.

 

Non mancano, naturalmente, i difetti, che sono la nobiltà di un bel libro. Solo chi sta al pianterreno, diceva Giovanni Testori, non cade. Belpoliti si è messo in cammino con uno zaino piccolo sulle spalle, e lui lo sa. Ci sono i limiti di una cultura storica (alla quale tutti più o meno apparteniamo) che considera imperdonabile parlare di un tempio greco senza la dovuta documentazione ma non riserva la stessa attenzione a una cattedrale romanica. Ma anche questo fa parte del gioco: essere ingiusti è quasi inevitabile, la letteratura stessa è un meraviglioso atto di ingiustizia, un sopruso per amore. Belpoliti è troppo melanconico, troppo poco spudorato per arrivare a tanta felicità, però non millanta. Trova nel suo malinconico camminare qualcosa di sé, e ciò gli basta, al modo degli epicurei: ne quid nimis.

 

Che cos’è dunque la pianura/Pianura? Non si può dire, il che cos’è non le si addice. È una molteplicità, è un numero periodico, è un integrale. Belpoliti descrive la pianura proseguire nel mare (solo l’Adriatico però), e questo non è poco. Ma definire però non si può, e del resto non è lo scopo del libro, e nemmeno il nostro. Al contrario. Belpoliti non “dice”. Trascina, se mai, nel suo non detto tutti quei nomi/segnavia che lo avevano accompagnato, che gli avevano offerto un illusorio nord. Boetti, Ghirri, Celati, Camporesi si fanno un po’ più silenziosi. Anche perché la pianura (o Pianura) un tempo popolosa, ciarliera, ricca di pensiero e di fermenti, ricca di politica!, ora appare regredita a quel silenzio che colpisce chi, a Milano, sul confine sud, si affaccia dagli ultimi condomini sulla campagna, così silenziosa e deserta da sembrare anche qui, e non soltanto a Cervia, un mare. 

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