(Ansa)

Riscoprire l'espressionismo di Heym e Trakl

Matteo Marchesini

Lì dove il soggetto non ha più posto, dove l’Io ha smesso di essere padrone in casa propria. Elliot e Giometti&Antonello editore propongono due poeti sull'orlo del baratro

Se esiste nell’arte moderna un fenomeno tipicamente tedesco, è senza dubbio l’espressionismo. Come capita per altri movimenti d’avanguardia, anche in questo caso il significato dell’etichetta appare più chiaro nelle arti visive che nella letteratura, dove la si attribuisce a troppi autori che condividono solo la tendenza alla sperimentazione antirealistica dei primi vent’anni del 900. E’ vero che certe pagine di Kafka e del giovane Brecht hanno tratti espressionisti, ma la categoria non le illumina granché; e rischia di tradire persino l’immagine di Benn. Molto meglio si adatta a Georg Heym (1887-1912), di cui Elliot ha appena ristampato a cura di Massimo Palma la raccolta postuma “Umbra vitae”, nell’edizione del 1924 arricchita dalle xilografie di Kirchner. Con le sue quartine rimate e i suoi sonetti insieme barocchi e telegrafici, visionari fino all’astrazione e traboccanti di oggetti concreti, Heym rende plasticamente gli incubi collettivi destinati a scaricarsi di lì a poco nella carneficina che invoca e che non vedrà.

 

 

I colori del poeta sono il nero del lutto, il bianco dei cadaveri, e le tinte accese della metropoli. Sulla Berlino heymiana incombono astri funesti simili a enormi statue, e nelle sue strade infuocate si riversa una massa compatta, ottusa, senza nome, che con la sua presenza sembra voler colmare il “leeres Nichts”, il “vuoto nulla” che si spalanca nelle esistenze dei singoli individui. I tableaux di questo acerbo Baudelaire tedesco risultano insieme agitati e statici, come la vita dei reietti in cui gli si rivela la verità nascosta del progresso: “Le cieche vanno con le loro aiutanti, / colossi neri, moloch di argilla, / che gli schiavi trascinano avanti (…) La loro fronte è immane è una tomba / vi brucia il pentagramma di un dio oscuro. // La sera pende come un barile di fuoco / all’orizzonte da un pioppo. / Le braccia delle cieche puntano il sole, / sono croci nere all’orlo di un cielo felice”.

 

Speculare a quella di Heym è la poesia del suo coetaneo austriaco Georg Trakl (1887-1914), di cui l’editore Giometti & Antonello ha pubblicato “Quaranta poesie” tradotte e introdotte da Dario Borso. A volte si parla di espressionismo anche per Trakl, ma il riferimento è fuorviante. Nei suoi versi, infatti, la violenza espressiva si spegne in una quiete sinistra. Tutto vi è composto come in una bara. Un biancore angelico è insidiato da una vita oscura, verminosa. Muti fantasmi si aggirano dove erano le figure umane familiari, e intorno l’alito di un freddo paesaggio crepuscolare “fa tremare di rovina”: “Il merlo geme tra i rami sfrondati. / Oscilla la rossa vite su grate arrugginite, // mentre, macabra ronda di bimbi smunti / intorno ai bui pozzi che si sgretolano, / nel vento abbrividendo si chinano astri blu”. Le constatazioni si allineano una dopo l’altra, irrelate e prive dell’energia heymiana. Corrispettivi stilistici della passività esistenziale che avvolge questo mondo sono la frequente assenza del verbo, l’allentamento dei nessi sintattici, e la ripetizione continua delle stesse parole.

 

Ci ritroviamo sempre tra giardini, cimiteri, acque stagnanti e frutti autunnali, vicino a una stanza da cui proviene una sonata, sotto un cielo solcato da uccelli neri, o in mezzo a una natura montuosa che come nei nostri autori vociani è opposta alle “crollanti città / d’acciaio”; e sempre ci imbattiamo in una figura sororale dai contorni sessuali incerti, in un rapporto incestuoso che non rimanda solo alla biografia del poeta ma anche a un tema letterario d’epoca. Il tema trakliano per eccellenza è però lo “sfacelo”. La dissoluzione dell’Impero asburgico, che Joseph Roth stenograferà nei suoi romanzi, è colta da Trakl in una sorta di estasi negativa. Il vecchio ordine è svuotato, il nuovo non si vede all’orizzonte: così si avanza in una terra di nessuno, tra il “marmo logoro degli avi” e i “non nati” il cui spettro aleggia sulla soglia della Grande guerra, rappresentata nell’ultimo testo su Grodek.

 

In un quadro del genere il soggetto non ha più posto. “Immagino che perfino chi gli sta vicino, premuto per così dire contro il vetro”, ha scritto acutamente Rilke, “avverta queste vedute e questi colpi d’occhio sempre come un escluso: il vissuto di Trakl infatti avanza come in immagini riflesse e riempie tutto il suo spazio, che è inaccessibile come lo spazio nello specchio (chi mai sarà stato?)”. Prima di spegnersi alla fine dell’adolescenza, come due cavie di sensibilità purissima, Trakl e Heym registrarono poeticamente la stagione in cui l’Io ha smesso di essere padrone in casa propria.  

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