l'intervista

Il fotografo di Michelangelo

Negli scatti di Aurelio Amendola, le statue del grande maestro raccontano qualcosa di sé che fino ad allora era rimasto segreto, ignorato e nascosto alla vista

Valeria Sforzini

Ha preso Michelangelo e lo ha fatto suo, anche se, come dice lui, probabilmente l’artista per questo “si è incazzato un po’”. Ha guardato le sue opere da vicino e quello che ne è uscito, più che la perfezione della sua tecnica, è stata la sua umanità. Aurelio Amendola è considerato il fotografo di Michelangelo. Tra le sue mani, le statue del grande maestro raccontano qualcosa di sé che fino ad allora era rimasto segreto, ignorato e nascosto alla vista. Ha scattato le opere di uno degli artisti più amati, ma anche più fotografati di sempre, eppure le sue fotografie non potrebbero essere confuse con quelle di nessun altro.

 

Il primo confronto con l’artista è arrivato con le Cappelle Medicee nel ’90: “Allora scattavo i contemporanei, come Marino Marini - spiega al Foglio Aurelio Amendola – Avevo fotografato le opere di Giovanni Pisano, conoscevo Michelangelo, ma non avevo mai avuto il coraggio di affrontare un artista così importante, perché quando si toppa con un nome di questa portata, si rimane fregati per tutta la vita. Ci sono andato con i piedi di piombo, sapevo che stavo fotografando il più grande del mondo”. Il risultato fu una raccolta di scatti che venne premiato a Mantova come libro dell’anno. “Ma non mi bastava, volevo un altro Michelangelo – continua – dopo un anno chiesi il permesso di scattare il David. Me lo sconsigliarono: era già stato fotografato in tutti i modi. In più, si poteva lavorare solo il lunedì, montando su un’impalcatura di sei metri. Era troppo complicato e il mio morale cascò. Una notte ho capito che la chiave stava nella sua sensualità. Me lo sono fatto mio e ho cercato di mostrare quello che gli altri non notavano. Da allora c’è chi mi dice che per vedere davvero Michelangelo, deve guardare i miei scatti”.

 

 

Oggi oltre 300 delle sue fotografie si possono ammirare nella sua Pistoia, dove la mostra “Aurelio Amendola, un’antologia”, organizzata dalla Fondazione Pistoia, Musei riporta alla luce gli scatti che ha realizzato nel corso della sua carriera. Inaugurata a febbraio, è rimasta aperta solo cinque giorni, prima del lockdown. “Aurelio ha le mani negli occhi – spiega Paola Goretti, che ha curato la mostra assieme a Marco Meneguzzo - l’approccio che ha al corpo delle statue di Michelangelo è lo stesso trattamento che riserva a un corpo vivo”.

 

 

Amendola ha passato tutta la sua vita a fotografare l’arte e gli artisti, ma non si è mai considerato tale. “Un artista non è solo un testimone, è un interprete – spiega Meneguzzo – I suoi soggetti sono ritratti con tutte le loro debolezze, caratteristiche e particolarità. Questo in parte è dovuta alla grande simpatia di Aurelio. Anche se il suo approccio sembra semplice, è il frutto di un talento coltivato. Questi artisti sono in posa ma non lo sono, c’è un punto in più di verità che lui riesce a comunicare immediatamente”.

 

Oggi, a 83 anni ha smesso: “Non mi ci ritrovo più – spiega – ora chiunque si sente un artista, anche i fotografi”. Negli anni ’60, quando incominciò a scattare, le cose erano molto diverse. Allora conosceva tutti i maggiori artisti del panorama contemporaneo e li scattava negli studi, intenti a realizzare le loro opere. Da Mario Ceroli con indosso le ali in legno sulla spiaggia di Fregene, a Emilio Vedova a Venezia, frenetico e completamente ricoperto di vernice. Con Marino Marini aveva stretto un rapporto speciale: suo è lo scatto che lo ritrae vestito di azzurro, con un cavallo sulla spiaggia di Forte dei Marmi, mentre era riuscito a fotografare De Chirico in gita a Venezia, sulla gondola, o quando si imbatté in una sposa sulla riva degli Schiavoni. Di Burri si dice fosse un po’ burbero, ma la sequenza della combustione, con l’immagine iconica della fiamma che copre completamente il volto dell’artista rivela tutta la complicità che si scatenava in quei momenti. Per lui fu come un maestro. “Sono stato fortunato – racconta - ho scattato i più grandi artisti del mondo. Non pettinati, con gli abiti alla moda. Che me ne frega a me. Io li ho fotografati nei loro studi. Se erano sporchi, erano sporchi, se erano belli, erano belli, basta che fossero naturali”.

 

E per scattare gli artisti nel loro habitat è volato in tutto il mondo, da Parigi, alla Spagna, a New York. Passava con la stessa semplicità da Canova a Burri a Roy Lichtenstein, a Andy Warhol nella sua Factory: “Warhol lo fotografai nel ’77. Ero a New York assieme al mio amico pittore Dante Liberi. Io gliela buttai lì: ‘Proviamo a chiamare la Factory di Warhol?’ Così, come se stessi invitando un amico a bere un caffè. Telefonò lui, perché io non sapevo l’inglese: ‘Aurelio, la segretaria è italiana, ci vuoi parlare te?’ Si chiamava Patrizia. Le risposi: ‘Salve, sono Aurelio Amendola, sono qui a New York a scattare il mio amico Finotti, posso venire domani a fotografare Andy Warhol? Lei si stizzì: ‘Ma lei chi crede di essere per venire a scattare Warhol?’ Io mi arrabbiai e risposi: ‘Io sono il fotografo di Marino e De Chirico’. Allora erano più famosi di Andy Warhol – spiega - Mi disse che il maestro mi avrebbe incontrato l’indomani alle 11. Che bellezza. Eravamo soli. Si presentò elegantissimo, con i jeans e la cravatta. Lui non sapeva una parola di italiano e io di inglese, ma andava bene lo stesso perché io sapevo chi avevo davanti e lui di fotografia si intendeva molto. Feci solo 15 foto a colori, anche se le preferivo in bianco e nero, ma non gliele mandai mai”. Si incontrarono ancora una volta, per caso, nell’86, quando gli scattò le ultime fotografie che lo ritraggono in viso prima che morisse. “Mi emozionai. Era un’altra persona – racconta – Gli feci una foto da vicino, ma me ne pentii subito. Si vedeva che non stava bene. Il giorno dopo andai da Lichestein: ‘Pronto? Sono Aurelio Amendola!’. Questa è stata la mia storia americana. Facilissima. Mi è andata male con Picasso, ma con loro mi è andata bene”.

 

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