L'intervista della domenica

Bonomia da tutti gli artigli 

Simonetta Sciandivasci

La libertà, la rabbia, Tronchetti Provera, il domani, Romeo, Shakespeare, com'era La7, l'illusione di Renzi, il mappamondo sul pianoforte, Tremonti dietro le quinte, Edmondo Berselli. Conversazione con Antonello Piroso 

“Piroso ha una certa tendenza a fare le domande e anche le risposte”. Lo ha scritto Edmondo Berselli, che è morto l’undici aprile del 2010, undici anni fa oggi, a nemmeno sessant’anni, una ingiustizia incalcolabile. Naturalmente, aveva ragione. In quel pezzo, si complimentava con Piroso e la sua trasmissione, “Niente di personale”, e La7, per un’intervista ad Antonello Venditti in cui s’era scherzato con galateo, s’era dato del lei, e tutti avevano parlato quanto e come avevano voluto. Erano gli anni della La7 alternativa e un po’ corsara, radical chic liberale libertaria liberissima, terza via tra Rai3 e Canale Cinque, tra sperimentale e fatto bene. Il grande capo era Marco Tronchetti Provera, allora presidente di Telecom Italia. 

Antonello Piroso ci era entrato poco più che quarantenne, dopo molti anni a Panorama e qualche altro come autore tv, un film di Pingitore, un programma con Eva Robins, ed era diventato, in poco, vicedirettore e poi direttore del tg, continuando a condurre Omnibus e Niente di personale. Nell’inesistente tempo libero, aveva studiato Enrico Mattei, Walter Tobagi, Giorgio Ambrosoli, la strage di Srebrenica e ne aveva fatto monologhi teatrali.

Piroso ha fatto di tutto. Tranne il politico e il musicista. Al centro del suo salotto, però, c’è un pianoforte a coda bellissimo e coperto di libri, fotografie, riviste, più un mappamondo. Ci sono libri ovunque, anche sui davanzali. C’è ordine e disordine, luce bianca, sedie celesti, un cane che non abbaia mai e un bambino, Romeo, suo figlio, bellissimo. 

Piroso non porta le scarpe e nemmeno i calzini, come Madame a Sanremo. Poco prima del mio arrivo, mi ha detto: se vuole, può intervistarmi come ho fatto io con Barbareschi. Ho letto quell’intervista: Barbareschi parla ininterrottamente e lui lo interrompe soltanto per dire: sì, ma…

 

Ha visto che Barbareschi sta per tornare in tv, su Rai3? Ha detto che farà un programma dove “elaboreremo concetti politicamente scorretti”. Che fissazione questa del pol corr, che palle.

Concordo, una noia.

 

Però lei ha uno spazio online che ha chiamato “polemicamente scorretto”. Non vedo grandi differenze.

Il polemicamente scorretto non si accanisce contro il politicamente corretto: più che altro, lo discute. Per me è doveroso chiederci il perché di questo eccesso di zelo e di irritabilità collettiva che governano tutte le conversazioni e tutti i tipi di espressione, però capisco anche che stiamo diventando come era mia madre quando ero piccolo: siamo ossessionati da quello che potrebbe dire la gente. Sei miliardi di persone, sei miliardi di paletti. Ricorda quando Sabina Guzzanti imitava Lucia Annunziata e le faceva dire “penso che la tua libertà finisca dove inizia il paletto dell’altro e siccome al mondo siamo 6 miliardi, ci sono sei miliardi di paletti”?

 

A me pare che i paletti li mettiamo soltanto nella nostra bolla.

Certo. Alla gente per strada non importa niente di cosa fa indignare oggi la blogosfera. Però, fare il nostro lavoro, oggi, è piuttosto complicato, la censura ce la si autoinfligge, se nascesse una rivista come Il Male, farebbe più incazzare che ridere. Nemmeno si può dire che sia un fenomeno recente: “La cultura del piagnisteo” di Robert Hughes fotografava la tendenza che oggi vediamo esplicitata in tutto, ed è un libro di poco meno di trent’anni fa. Avanziamo rinculando.

 

Ma a lei non capita mai di pensare: fino a ieri mi sono espresso male e sono contento di correggermi?

Quando ero piccolo io dire a un bambino che era spastico non era un’offesa da lavare con il sangue, nessuno avvertiva in quell’espressione la volontà di sminuirlo. Ci prendevamo tutti in giro con parole atroci, ci dicevamo “mongolino”. Adesso sentire usare termini che rimandano a patologie o disabilità per condire polemiche o insultare (“ritardato”), mi provoca profonda ripulsa. È l’unico caso in cui condivido i paletti di Annunziata-Guzzanti. Per il resto no. Che oggi si sia sviluppato un grado diverso di sensibilità lo accetto e rispetto, ma non ci si può neppure censurare temendo il crucifige della Santa Inquisizione del web, perché perfino una banale espressione quale “lavare l’offesa con il sangue” vene presa alla lettera come un’esortazione a passare alle vie di fatto, nel segno dell’occhio per occhio, dente per dente. Andiamo, non ci porta da nessuna parte.

 

Non vede nessun cambiamento?

Sono 35 anni che scrivo e mi sembra di aver già visto tutto. Nonostante questo, ho fiducia nel futuro e non smetto di aspettare che succeda qualcosa di nuovo o almeno di diverso, ma faccio sempre più fatica, sono sempre più insofferente.

 

È arrabbiato?

Sono arrabbiato perché a volte mi accorgo di essere disilluso e non mi piace. Mio nonno era un partigiano e s’è battuto contro il fascismo. Io ero un ragazzino durante gli Anni di Piombo. Ero un adolescente quando ci battevamo contro il regime democristiano. Finito quello, ci siamo battuti contro il regime craxiano, poi contro quello berlusconiano. Inciso: Berlusconi non è durato vent’anni come usa dire. Ha perso due volte contro Prodi, cosa che smentisce clamorosamente quella fesseria secondo cui chi ha le televisioni, vince. Si ricorda quanto a lungo e con quanta pesantezza abbiamo trascinato quel dibattito? E adesso che è stata eliminata la tv generalista in senso tradizionale, cosa abbiamo ottenuto? L’amministratore delegato di Apple ha fatto sapere che la sua azienda possiede più di un software per far votare le persone direttamente dallo smartphone. Che catastrofe. Se lo immagina? Votare potrebbe diventare uguale a mettere like.

 

Torniamo ai regimi.

Quante volte ho sentito la parola regime. E declino. E crisi della politica.

 

E deriva autoritaria e ritorno del fascismo.

E Vespa in televisione da quando avevo nove anni e adesso ne ho sessanta. E mi creda: è sempre tutto uguale. Tutto si ripete. Quando è arrivato Renzi, ho creduto in lui e ho fatto male, visto l’esito, che è tutto merito, anzi demerito suo. Dopo Renzi, il nulla.

 

E i grillini?

E i grillini e l’abolizione della povertà e Draghi (altro inciso: ha ragione Giuliano Ferrara, il governo Draghi non è il capolavoro politico di Renzi perché questo è il governo di Giorgetti). Fandonie. Rivoluzioni che non lo erano. E Tabacci è ancora lì, inaffondabile. E parliamo ancora di D’Alema e di Bersani e della sinistra che si scinde. E allora uno adotta almeno un principio di cautela, che comporta due cose: verificare tutto, sempre, che è una cosa buona, anche se dispiace che il motivo per cui lo si fa sia la sfiducia totale in tutto; non abboccare a nessuna proposta di cambiamento, rinnovamento, rivoluzione, eccetera eccetera. Ma lei si rende conto che quando apro i giornali online leggo “Er Faina vs Aurora Ramazzotti”? Prima di tutto chi è Er Faina, e secondo: cosa sono questi titolacci da film anni Cinquanta, questi Mazinga vs Ben-Hur? Come si fa a non perdere la testa?

 

Del presente cosa le piace? Facciamo prima.

Veder crescere mio figlio. Da quando sono padre, mi hanno detto che sono diventato più cattivo e spigoloso, e può darsi che sia vero. Forse sto invecchiando male, ma so di certo che prima che Romeo nascesse del futuro non mi importava niente: il mondo, per me, sarebbe finito con me. Adesso, invece, mi preoccupo di quello che sarà, e vorrei moltissimo che il nostro paese diventasse un posto meno indecente.

 

Com’è un paese decente?

Un paese dove se fai le liste per il vaccino anti covid non mi dici che ci sono le categorie prioritarie, poi i medici, poi “altri”. E chi sono questi altri nessuno lo sa. Nessuno è in grado di dire nemmeno come sia successo che due milioni di persone abbiano saltato la fila per vaccinarsi.

 

Sul Covid, però, sono andati in cortocircuito quasi tutti.

Con le dovute differenze, ma certo: non saprei indicarle un paese che abbia un governo esemplare, un sistema culturale che mi sembra proficuo, un futuro promettente. Penso sempre al Belgio: 500 giorni senza governo e il Pil è cresciuto come non era mai successo.

 

È un anarchico?

Sì, ma sono anche un bravo ragazzo di provincia che rispetta le regole e dà del lei.

 

Fabrizio De André diceva che gli anarchici si danno delle regole ferree e le rispettano, ma non le impongono agli altri.

Esatto. Aggiungo che quando qualcuno mi dice cosa devo fare, m’incaponisco e non lo faccio. Divento un ragazzino odioso.

 

Berselli notò con piacere che, quando lo aveva avuto in studio, aveva dato del lei a Venditti.

Ho dato del lei anche a Tronchetti Provera per moltissimi anni.

 

Com’è stato dirigere il Tg della televisione del presidente della Telecom?

Quando accettai l’incarico, fui molto chiaro: avrei dato tutte le notizie. Lui mi disse che non si aspettava altro che questo. E fu di parola. Non mi chiese mai niente, non si intromise mai. Anzi, ero io a volte a farmi lo scrupolo, a chiamarlo per avvisare che avrei dato notizie che per l’azienda avrebbero potuto essere compromettenti, ma non mi chiese mai di fermarmi. Anni dopo mi disse che riceveva, per questo, moltissime lamentele. L’unico favore che mi chiese fu di fare un colloquio a una persona che avrebbe voluto lavorare al tg, senza sentirmi vincolato ad assumerla. Lo feci e non la assunsi, perché non la reputai meritevole. Nessun contraccolpo.

 

Come mai la mandarono via?

Guardi, io non credo alle dietrologie e sono passati così tanti anni che nemmeno mi importa più chiarire qualcosa che non è mai stato chiarito: tutto è passato in cavalleria e siamo uomini di mondo, va bene così. In questo paese, quando vieni sostituito, le dinamiche non sono quasi mai limpide e se lo segnali passi pure per invidioso. Comunque, ho messo in fila i fatti e dedotto qualcosa. Nell’aprile del 2010, l’azienda mi diede un aumento perché mi inventai un nuovo spazio, “AhiPiroso, e io ne fui contento. Mai avrei potuto pensare che, meno di due mesi dopo, sarei stato licenziato. Un’azienda che vuole mandarti via, di solito, traccheggia, non ti aumenta lo stipendio. Invece, a giugno, mi chiamò Gianni Stella e mi invitò a prendere un caffè in a Corso Italia, sede della Telecom e mi disse, senza girarci attorno, che da quel giorno non ero più direttore del tg di La7 e che sarei stato sostituito da Mentana. Qualcuno mi disse poi che c’era il mandato di Bernabè in scadenza, lui stava trattando con il governo Berlusconi e queste erano partite di Gianni Letta, che con Mentana aveva rapporti diretti e pseudofamiliari, per cui pare che Bernabè – ma è una ricostruzione da verificare – quando chiese, in sostanza, il rinnovo per altri tre anni del mandato, ricevette da parte del governo Berlusconi, quindi da Gianni Letta, l’ordine di far lavorare Mentana, che aveva lasciato un anno prima Mediaset per la famosa serata Englaro. Era andato via sbattendo la porta. Aveva detto: non mi vedrete ai giardinetti, non vi preoccupate. Ma poi il tempo era passato e niente si era mosso e allora chi lo sa, magari aveva chiesto aiuto a qualcuno.

 

E dopo?

E dopo continuai per altri due anni con “Ahi Piroso”, trasmissione dove uno dei primi ospiti fu proprio Mentana, e non riesco a non pensare che non sapesse già, quando venne, che avrebbe preso il mio posto. Ricordo che qualche mese dopo, andai a moderare un incontro di giovani industriali e, durante un collegamento con Federica Pellegrini, le chiesi conto di una cosa che avevo letto sui giornali. Lei mi disse che era stata amplificata e rovesciata dal giornalista e io, scherzando, le dissi di non fare come Tremonti, che aveva un rapporto notoriamente ondivago con la corporazione. Tremonti, che allora era ministro, sedeva in prima fila. Quando finì l’incontro, mi raggiunse dietro le quinte e mi disse: Piroso, evidentemente la lezione che ha ricevuto non le è bastata. Rimasi frastornato. Con lui, tra gli uomini della sua scorta, c’era un colonnello della Finanza che, poco dopo, venne a darmi la mano e mi disse, mortificato dall’accaduto: sappiamo chi era suo padre, sappiamo che lei è uno di noi. Mio padre ha lavorato in finanza tutta la vita.

 

Quando scriveva su Panorama, fece una serie di scoop incredibili sulla Rai. Ed era un ragazzino, aveva appena cominciato. Segreto?

Una volta, mentre facevo colazione da Vanni, a Prati, mi avvicinò un tale e mi chiese se io fossi Piroso. Gli dissi di sì, si complimentò per alcuni articoli sulla Rai che avevo scritto – poca roba, un paio di pezzi all’acqua di rose, se devo dirla tutta – e mi invitò a prendere un caffè. Ci andai e capii chi era.

 

Chi era?

Un dirigente. Uno grosso. Il nome non glielo dico.

 

Va bene. Poi?

Parlammo a lungo di molte cose, più o meno informali. Quando mi congedai, mi disse, indicando una busta sulla sua scrivania, di non dimenticarla e di aprirla a casa, con calma. Lo feci. Mi ritrovai in mano tutti i contratti protocollati dei dipendenti Rai, specie gli illustri. Pensai che mi stessero rifilando una polpetta avvelenata, feci delle ricerche, capii che erano contratti autentici e pubblicai, progressivamente, tutto.  Continuai a vedere quell’uomo ciclicamente e lui mi diede sempre notizie: si fidava perché aveva visto che non avevo usato quello che mi aveva dato per minacciare nessuno con il metodo Corona, né ci avevo speculato in alcun modo. In redazione, i miei colleghi erano convinti che il giornale mi desse dei soldi in nero per pagare la mia fonte. In quegli anni in redazione c’erano dei re delle note spese, gente che tornava da viaggi di lavoro dove aveva addebitato al giornale persino l’acquisto di pecore con la scusa di retribuire le proprie fonti. Che ridere.

 

Quando ha deciso di fare il giornalista?

Quando lessi “Carte false” di Giampaolo Pansa. Un libro che demoliva i giornalisti e che però era scritto talmente bene che mi fece venire voglia di provare a fare altrettanto.

 

Chi è un bravo giornalista?

Uno che scrive bene, perché chi scrive bene pensa bene. Uno che non ha paura di offendere o dispiacere. Noi serviamo a dire che il re è nudo, non a coprirlo. Credo ancora che questo abbia un valore, anche se ormai le marchette sono così frequenti e generalizzate che non scandalizzano nessuno. Quando Romiti comprò RCS e, a un convegno a Venezia, gli fecero una domanda sull’autonomia e indipendenza dei giornalisti, lui rispose: prima di parlare di queste cose, dovrebbero alzarsi i pantaloni. Pensai che aveva ragione. Mi vergognai anche quando Cusani, durante il processo Enimont, disse che i giornalisti erano “persone cui tirare una fetta di salame”.

 

Lei crede nell’incorruttibilità?

Io credo nel fatto che debba essere un’aspirazione. E guardi che non ha niente a che fare con l’onestà di cui parlano i grillini e che, per quanto mi riguarda, non renderà mai la competenza un valore secondario o rinunciabile. Noi dobbiamo pretendere che onestà e competenza, nella classe politica e nella classe dirigente soprattutto, non siano alternative, ma compresenti.

 

Il giornalista disonesto ma competente va bene?

Siamo uomini di mondo, via.

 

Lei è stato uno dei primi a fare una scuola di giornalismo.

Sì, grande scandalo. Ci dicevano che eravamo polli da batteria perché i giornalisti imparano sul campo e la redazione è la scuola. Invece, io imparai moltissimo e molti dei miei compagni hanno fatto ottime carriere. Nelle scuole di oggi vorrei che si studiasse, come testo base, “Venerati maestri” di Edmondo Berselli.

 

E il teatro? Ne ha fatto tantissimo. Ha raccontato di tutto, da Srebrenica e Shakespeare.

Amo parlare da solo – e infatti detesto il telefono e impazzisco quando non rispondo e insistono. E poi per quegli spettacoli studiai mesi e mesi, forsennatamente, e mi piacque moltissimo.

 

Mi dice una sua intervista che ricorda con piacere particolare?

Quella al figlio di Bin Laden, quando ancora Bin Laden era vivo. Un’esclusiva mondiale di La7. Aldo Grasso, che con me è sempre stato feroce, me ne disse di tutti i colori anche quella volta.

 

La cosa che più si è divertito a fare?

Forse la rubrica con Susanna Agnelli. Senta come andò. Una sera, un quarto d’ora prima che andasse in onda il tg, la mia segretaria mi disse che c’era al telefono Susanna Agnelli. Io pensai che si trattasse di uno scherzo, anche perché so fare l’imitazione di Gianni Agnelli piuttosto bene – mi creda, livelli altissimi. Quindi risposi, in allerta, e ascoltai. Mi disse: Senta, Piroso, lei è un apostrofo azzurro nel grigiore dell’informazione italiana. Si metta nei miei panni: come potevo pensare che fosse una cosa seria? E allora, con la voce di Gianni, risposi: Suni, come te lo devo dire che non devi disturbarmi quando sto per andare in onda? E attaccai. Dopo mezzo minuto il mio autore, Enrico Capone, entrò nella mia stanza e mi urlò che avevo chiuso il telefono in faccia a Susanna Agnelli. Le mandai dei fiori per scusarmi. Sul bigliettino scrissi: Signora, mi perdoni, ho creduto fosse una burla. Lei mi invitò a pranzo e io le proposi di fare una rubrica in un mio programma. Volevo che facesse la critica televisiva. Accettò. Ci divertimmo pazzamente. Una volta, appena scoppiato Calciopoli, a registrazione quasi ultimata, disse: mi giunge voce di scandali sportivi che riguarderebbero anche la Juventus al punto che alcuni tifosi avrebbero deciso di bruciare la bandiera. A queste persone vorrei ricordare che se ami una donna, non la lasci se nel frattempo diventa una troia. Epica. Non ne aveva per nessuno.

 

Una cosa che mi fa impazzire della sua biografia è il film con Pingitore. 

“Gole Ruggenti”! Lavoravo a Panorama e avevo da poco pubblicato un’inchiesta su Sanremo. Quando Pingitore mi chiamò e mi disse che voleva fare un film sul festival e che io avrei dovuto fare la parte del giornalista, fidanzato con Pamela Prati, tentennai. Poi mi disse il compenso: stellare. Accettai. Girammo a Roma, in estate. Ricordo le riprese all’Hotel Plaza, che era stato ristrutturato da poco. I cinematografari montavano i riflettori sui capitelli, la direttrice urlava disperata e loro rispondevano: signò stamo a fa er cinema. Magnifico.

 

Lei adesso fa la radio al mattino (Il cavaliere nero, Virgin radio) e la webtv su lefonti.tv e scrive per La Verità. E mi sembra già abbastanza, eppure rispetto a quanto ha lavorato, nella sua vita, è niente. Non era mai stanco?

Una volta sono stato invitato a moderare un convegno di Confindustria a Santa Margherita, in Liguria. Conducevo “Omnibus”, “Niente di personale”, il tg. Mi svegliavo alle quattro ogni giorno. Arrivai, moderai e poi andai a cena con tutto l’establishment presente, a casa di Tronchetti Provera. Ero esausto. Dopo cena, andammo in salotto e io mi addormentai sul divano, nel pieno di una conversazione. Quando mi svegliai, Tronchetti Provera disse: Antonello, stavo appunto dicendo ai tutti quanto stai lavorando in questo periodo, quindi se sei stanco vai pure. Mi accompagnò alla macchina e si scusò. Lui, si scusò lui. Non mi disse mai se avessi anche russato, ma temo di sì.

 

Sa che la facevo cinico?

Scherza? Io non sono un cinico, è per questo che mi incazzo sempre e tanto, tantissimo.

 

 

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.