Una foto può aiutare

È sempre la memoria l'alleato nella lotta eterna contro l'inesistenza

Laura Pezzino

Scrivere non è scolpire il marmo, ma afferrare una manciata di detriti che galleggiano sulla corrente di un fiume: il primo memoir della saggista Rebecca Solnit

Da dove si incomincia a raccontare la propria nascita reale, quella che segna il passaggio dalla non esistenza all’esistenza? Una foto può aiutare. In bianco e nero, bruttina, compare all’inizio del volume: una scrivania bianca in stile vittoriano, con cinque cassetti e le gambe sinuose. Sopra, il monitor di un pc velato da un centrino e una selva di cianfrusaglie. Volatilità, ma anche solidità. Una piattaforma, una tribuna. Ricordi della mia inesistenza è il primo memoir di Rebecca Solnit, una delle saggiste più famose degli Stati Uniti, divenuta tale dopo quel libro geniale che è stato Gli uomini mi spiegano le cose, un manuale sul mansplaining che è una di quelle sostanze talmente disciolte nel nostro Dna che per millenni non gli abbiamo nemmeno trovato un nome: il modo paternalistico con cui gli uomini si sentono in dovere di spiegare le cose alle donne, indipendentemente dal fatto che sappiano o no di cosa stanno parlando. Ma qui siamo già più avanti, nel 2014, anche se, ragiona Solnit, la memoria funziona come il gioco della campana: “Non è possibile ripercorrere tutto in una volta sola, ma si può attraversare la stessa casella in modi diversi, o tracciarvi una strada”. Che è un modo piuttosto esatto di descrivere la dinamica dei ricordi.

 

Dunque quando Rebecca Solnit decide di fotografare le tappe che l’hanno fatta diventare quella che, “nonostante tutto”, è diventata, torna ai piedi di una rampa di scale ripidissime e, da lì, come in uno stargate, nel monolocale che, a 19 anni, aveva affittato in un quartiere di neri a San Francisco. È in quella stanza tutta per sé con la carta da parati scrostata che trova posto la scrivania sulla quale scriverà quasi tutti i suoi libri e che non era un pezzo di mobilio qualunque. A regalargliela era stata un’amica che era stata quasi ammazzata dal compagno. Scrive Solnit: “Qualcuno aveva tentato di farla tacere. Oggi mi chiedo se tutto quello che ho scritto in vita mia sia stato un contrappeso a quel tentativo di annientare una giovane donna”. 

 

Poiché, più spesso di quanto si pensi, si cresce “contro” qualcosa, è così che si coagula in lei l’ossessione per l’inesistenza, sia propria che di intere categorie di esseri umani (e l’autrice sottolinea più volte il proprio privilegio, nonostante tutto, di donna bianca). Racconta Solnit di non avere mai subito una violenza sessuale, ma tante piccole e grandi aggressioni, continue, spaventose, come l’inseguimento da parte di un uomo una notte che rientrava a casa: “Mi cancellavo il più possibile, perché esserci significava essere un bersaglio”, e, più in generale, “la femminilità è un continuo scomparire, una cancellazione, una riduzione al silenzio per aprire più spazio agli uomini”.

 

Tra i tanti fari che avrebbero potuta guidarla, vince il femminismo. L’infanzia guastata dal padre violento e la madre inerme, la passione per lo studio e la lettura, il trasferimento nella città che l’avrebbe cresciuta benevola e severa come una fata madrina, la fascinazione per il punk, le prime ossa in un giornaletto d’arte. A distanza di decenni da quella ragazza allampanata, povera e timorosa, con i santi Borges, Sontag, Orwell a guardarle la scrivania, Solnit dissotterra il cuore della propria scrittura-missione: non tanto la violenza sulle donne, quanto la volontà di trovare una voce: “Averne una significa poter partecipare appieno al dibattito che dà forma alla società, ai rapporti tra le persone e alla tua stessa vita”, a patto che questa voce sia “udibile, credibile e abbia peso”. 

 

Ricordi della mia inesistenza non è soltanto un manifesto femminista e un’autobiografia non confessionale, ma anche il luminoso coming of age di una scrittrice. Diventarlo “significa dare forma a qualche cosa di essenziale nel divenire umani: capire quali storie raccontare e come raccontarle e chi sei quando ti rapporti con esse, cosa scegliere e cosa sceglie te”, e nel contempo dà una bellissima definizione della scrittura, che non è scolpire il marmo, ma afferrare una manciata di detriti che galleggiano sulla corrente di un fiume. Perché sì, possiamo mettere in ordine i detriti, ma non possiamo scrivere il fiume. In sostanza, Solnit, che si definisce “femminista e speranzosa”, ci dice che per avere un’esistenza bisogna partire da dove veniamo (parafrasando Wordsworth, la bambina è madre della donna), passare attraverso le battaglie e approdare a una voce che abbia la potenza, e il potere, di arrivare sulle scrivanie degli altri

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