Il racconto

L'addio a Coccoluto, tra palloncini bianchi e l'ultimo disco davanti alla bara

Due generazioni della notte al funerale del re dei dee-jay nella chiesa degli Artisti a piazza del Popolo: "Era un talento lontano dalle solite etichette sui dj"

Simone Canettieri

Il ricordo del figlio Gianmarco: "Papà era generoso con tutti e semplice, i suoi insegnamenti me li porterò sempre dietro"  

Entra solo chi è in lista. Come nei club di mezzo mondo in cui  ha suonato.

Solo che qui siamo nella chiesa degli Artisti. E tutti vorrebbero essere su quel foglio, appena la Maserati bianca fende piazza del Popolo. La bara di Claudio Coccoluto varca l’ingresso. Il dj, 59 anni, è vestito con scarpe da ginnastica bianche, completo blu e sotto una maglietta bianca con la scritta “Silenzio”.

La sicurezza si irrigidisce. Chi sì e chi no, al di là della lista, lo stabilisce Giancarlo Battafarano, Giancarlino, che con lui fondò 25 anni fa il Goa, oasi underground della Capitale. Le corone di fiori raccontano notti e legami (occasionali ed eterni). C’è quella “degli amici di Radio Deejay”, ma anche di Goody music, la palestra dell’elettronica.

E poi le rose fatte arrivare “dal fratello Lapo” e il gonfalone di Gaeta, lembo di terra vista mare, da dove “Mister Co.Co.” iniziò a correre dietro alla musica. Aveva tredici anni. “Era il negozio di elettrodomestici del padre”, ricostruisce, informatissimo, don Walter Insero, già cappellano Rai. “Claudio era un artista: fondeva la musica elettronica con suoni antichi, un talento. E dietro la musica c’è l’intuito di Dio”.

In chiesa si sta due per banco. In prima fila: la moglie di Coccoluto, Paola, e i figli Gaia e Gianmarco. “Quando la discoteca chiudeva e la festa finiva, papà si fermava per le foto, le critiche, gli abbracci, gli sfoghi degli ubriachi fino alla fine: senza sottrarsi, semplice e generoso”, ricorda Gianmarco, ora sulle orme del padre. Silenzio. Parte l’organo. E si pensa un po’ tutti: sarà un tributo? No. Piangono i dj che cavalcarono gli anni ’90, gli imprenditori, i buttafuori, un pezzetto di Parioli. In disparte Beppe Fiorello. Seduto Pierluigi Diaco. Ecco Dago, Roberto D’Agostino: “Lo conobbi nel ’90 a Caserta in un capannone: stavo lì per l’Espresso, era quanto di più lontano dall’etichetta del dj scemo”.

Fuori si stringono ragazzi, si vedono reduci (con ferite) di notti andate. Tatuaggi. Belle signore. Mascherine di Radio Stardust. Funerale romano, discorsi americani (“Ao, a New York i locali so’ aperti con la mascherina, ma dice che c’è un impiccio tra Cuomo e De Blasio”).

Almeno due generazioni, da mesi senza mecche dove andare, vista la serrata delle discoteche. Esce la bara. Palloncini bianchi in aria, una cassa pompa la musica di Coccoluto. C’è chi accenna un passo, una mossa.

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  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.