L'intervista della domenica

Dalla parte delle bambine

Simonetta Sciandivasci

Stand by me, la Rai, le produzioni indipendenti, gli argomenti testardi, i leoni bianchi, il PCI, Occhetto, Zabriskie Point. Conversazione con Simona Ercolani

In "Stand By Me" ci sono quattro amici per la pelle che, inseguendo una storia, finiscono in sacco di guai, in una grande avventura. E così crescono, diventano chi saranno. Simona Ercolani fa qualcosa di simile nel suo lavoro: cerca le storie che la mettono nei pasticci, le ribaltano lo sguardo e le trasforma in programmi, serie tv, documentari, film. La sua società di produzione si chiama Stand by me (Sbm), come il film e come la canzone. 

Aveva cominciato da poco a lavorare in televisione quando filmò il momento preciso in cui, all’ultimo congresso del Pci, a Rimini, nel febbraio del 1991, D’Alema e Veltroni dissero ad Achille Occhetto che non sarebbe stato eletto segretario del partito, proprio lui che aveva lavorato al suo rinnovamento. Quel giorno finì il Pci e nacque il Pds. Ercolani non era lì per lavoro, ma per amore del partito – pensava: farò vedere il filmino alle mie figlie. Fu l’unica a girare quella scena, ci si trovò davanti per sbaglio, caso, culo. Successe tutto all’improvviso, i giornalisti erano usciti dalla sala, in pausa. Tutti tranne lei, che non spense mai la piccola telecamera "prestata da un amico ricco" e filmò un incredibile pezzo di storia della sinistra italiana. In un giorno, la sua vita cambiò completamente, tutti la vollero, lei disse moltissimi no. Ne ha sempre detti, ne dice ancora. Se la rischia. Ha scritto e ideato decine di programmi – il primo è stato lo storico "Sfide, lo sport come non lo avete mai visto". Ha lavorato per "Chi l’ha visto". Ha fatto l'autrice a Sanremo. Ha sposato “un giornalista dell’Unità che mi batteva i pezzi”, Fabrizio Rondolino, con il quale ha costruito una casa nel deserto del Nevada, perché suo padre, capo elettricista, lavorò sul set di "Zabriskie Point" di Michelangelo Antonioni. Ha fatto due figlie.

Nei ruoli apicali della Sbm sono tutte donne tranne due signori e sono donne il 65 per cento dei dipendenti. È un caso, ma pure un risultato, dal momento che in gravidanza si viene pure assunte e caldamente invitate a prendersi un congedo di sei mesi dopo il parto perché “è il momento più bello, se lo devono godere”. La politica aziendale è family friendly, come si dice.

 

Una volta ho letto uno studio che dimostrava, con grafici, numeri, eccetera eccetera, che le donne che aspettano un figlio, sul lavoro, sono più produttive.

Confermo. Soprattutto se hanno desiderato il bambino, sono di ottimo umore, raggianti, quindi più creative. Quando rimasi incinta la prima volta ero molto giovane e lavoravo come assistent producer con un contratto ridicolo e senza tutele, ma andai immediatamente a riferirlo al mio datore di lavoro, con grande allegria: non mi sfiorava neppure l’idea che la cosa avrebbe potuto rappresentare un problema. Invece, lui mi convocò il giorno dopo e mi disse: peccato, sono certo che saresti stata brava in questo lavoro, ma le tue condizioni non ti consentono di continuare. Indimenticabile. Tornai a casa e mi sentii persa. Ero certa che non avrei trovato mai più lavoro.

 

E invece?

Niente invece. Fu durissima. Rimasi a casa per un po’, poi mi ripresi, studiai, feci un corso di sceneggiatura, ma il terrore che tutte le porte sarebbero rimaste chiuse per sempre me lo portavo sempre dentro, addosso. Ero giovane e avevo una figlia, erano i primi anni Novanta, per una donna era sempre un problema, incinta o meno che fosse, perché tanto prima o poi lo sarebbe stata, e poi sarebbe diventata madre, e nessun datore di lavoro pensava che la vita familiare e quella professionale si potessero conciliare. Alla fine fui presa in uno studio di ingegneria, facevo la dattilografa, e nel frattempo continuavo a cercare lavoro sui giornali, su Porta Portese, cerchiavo gli annunci, facevo colloqui finché non mi assunsero come segretaria in una casa di produzione: rispondevo al telefono, pulivo, facevo tutto. E naturalmente venivo pagata in nero. Oggi è molto diverso. Certo, di discriminazioni ce ne sono ancora, ma esiste un sistema di tutele che noi non potevamo neppure sognarci.

 

A me sembra che il punto sia la discrezionalità del datore di lavoro: se è una persona perbene e, uso un termine tremendo, illuminata, i tuoi diritti sono garantiti, altrimenti niente.

È vero: molto, forse troppo, dipende dai capi. Ma avere la legge dalla tua parte non è poco: noi, in quegli anni, non l’avevamo. Mi è capitato di assumere dipendenti che erano incinta e mi è sembrato non solo giusto, ma pure doveroso. Ne ho fatto una questione personale: impedire che venga fatto quello che è stato fatto a me.

 

E paga?

Moltissimo. Le ragazze da noi hanno fatto figli in modo contiguo, quindi si sono scambiate turni, culle, vestitini. Si sono aiutate e continuano a farlo. È quasi matematico: ogni nuova assunta, dopo uno o due anni che lavora con noi, fa un figlio. Ed è sempre una festa alla quale partecipiamo tutti, mettiamo anche il fiocco in ufficio.

 

Siete una famiglia, come si dice.

Siamo cresciuti in maniera organica. All’inizio eravamo un gruppetto di persone che lavoravano già insieme da qualche anno in programmi dove io facevo spesso il capo progetti, affiancata da Teresa Carducci, attualmente capo produzioni della Stand by me. Dieci anni dopo siamo ancora qui, più grandi, e abbiamo sempre fatto e sviluppato tutto insieme. La squadra, piccola ma unita, aumenta la creatività in modo eccezionale.

 

Ci vuole un capo donna?

A me gratifica fare la capa illuminata, uso anche io una parola che non le piace. Ma una sola persona non cambia il mondo: ci vuole un movimento. Una cosa cui presto molta attenzione, in questo senso, è che ciascun dipendente con ruoli importanti abbia accanto a sé almeno un paio di persone da formare, che l'aiutino. Deve essere mentore il grande ma pure il piccolo, il capo ma pure il sottoposto. I rapporti di scambio davvero proficui non sono mai unilaterali. Vale in amore, vale in ufficio: vale nella vita. E non sto dicendo che le gerarchie devono saltare. Anzi. Ma, soprattutto nella questione di genere, è importante la collaborazione tra le parti, lo scambio fluido, altrimenti non si cresce organicamente.

 

C’è qualcosa nelle giovani donne che lavorano per lei che la preoccupa o la impressiona?

Le trovo ancora incredibilmente insicure. E troppo brave.

 

Come, troppo?

Troppo. Si vede che si sentono di dover dimostrare il doppio, il triplo. Sono sempre le più precise, puntuali, affidabili. Sono sempre loro quelle che non si tirano mai indietro. Io invece sogno un mondo in cui anche le donne si possano permettere di essere mediocri.

 

E fino ad allora che si fa?

Per quanto mi riguarda, per quello che posso fare, le incentivo, ma le proteggo pure.

 

Ha mai incontrato qualcuno che fosse così premuroso con lei?

Sono stata allevata in sezione, al Pci. Arrivavo, c’era il partigiano Sciorilli Borrelli che mi dava i libri da leggere e poi, due settimane dopo, mi interrogava. Era dura, ma imparai a parlare, argomentare, dibattere. Fu una scuola fondamentale, insostituibile. Un’altra grande fortuna.

 

Ricorda il primo libro che le assegnò?

Pajetta. Indimenticabile. Io ero una mamma molto giovane, avevo tremila problemi, pochissimo tempo, e mi appioppò questo librone faticoso. Non fiatai. Lessi, studiai, imparai.

 

Com’era la sinistra in quegli anni? Sessista?

C’era di certo sessismo, come dappertutto, ma io non ne ero consapevole. Dentro la sezione, però, mi sentivo più riconosciuta perché venivano riconosciuti i diritti di tutti, e quindi anche i miei. Non mi è mai successo nulla di sgradevole. Ero piccola, venni accolta, qualcuno si preoccupò della mia formazione.

 

Non ebbe mai la sensazione che volessero farle il lavaggio del cervello?

Mai. Al contrario, capii subito che mi venivano dato gli strumenti per essere libera.

 

Il femminismo scendeva in piazza in quegli anni. Ma come entrava nella vita privata? Lei lo avvertiva? Sentiva e beneficiava di quelle lotte? 

Ho avuto una professoressa di educazione fisica al liceo che ci faceva fare training autogeno e ci portava spesso in via del Governo Vecchio. Era bellissima. Mia madre mi diceva continuamente: devi essere indipendente. Lei non aveva studiato molto, la nostra era una famiglia semplice, mio padre faceva il capo elettricista, non voleva che lei lavorasse e lei ubbidì. Io feci il primo anno di ragioneria per poter cominciare a lavorare il prima possibile, ma quando scoprii che all’università sarei stata obbligata a studiare qualcosa di affine, andai dai miei e dissi che volevo fare il classico, per studiare poi lettere. Mi dissero: sei pazza, ma se ci tieni, fallo e veditela da sola. Così, a quindici anni, mi misi a lavorare per pagarmi le ripetizioni di greco e latino e fare l’esame d’ammissione al liceo. Che ovviamente superai.

 

Ovviamente!

Sì, ci terrei che lo sottolineasse, proprio con questo tono esclamativo. Grazie.

 

Quindi i suoi genitori non le misero i bastoni tra le ruote.

No. Ma non mi sostennero. Feci tutto da sola, incluse le pratiche burocratiche del provveditorato, non sa che incubo. Per il greco mi diede una mano un frate che avevo conosciuto agli scout. Tutti gli altri mi trattarono davvero come se fossi pazza.

 

Dopo l’ammissione al Virgilio a casa le cose cambiarono?

Macché. Era tutto proibito e lo rimase. Io potevo uscire soltanto se avevo un motivo valido. Credo che in quegli anni si sia sviluppata al meglio la mia fantasia nell’inventare scuse che passassero al vaglio di mia madre. Che fatica.

 

A proposito di fatica, lei lavora moltissimo con la Rai. 

Guardi che lavorare con la Rai è bellissimo. E io devo molto all’azienda, ho cominciato grazie a loro. Fu Anna Amendola, un’autrice Rai, a chiamarmi, subito dopo lo scoop di Rimini, che era finito sui giornali perché ne aveva scritto Filippo Ceccarelli sulla Stampa, dedicandomi praticamente una pagina intera. Fu lei a chiedermi quali altri documentari volessi fare e fu grazie a lei che l’attitudine di raccontare storie si trasformò in lavoro. Arrivai che ero piccola, acerba: mi insegnarono moltissimo. C’erano e ci sono maestri, eccellenze vere. Sa cosa le dico? Io con la Rai vorrei lavorarci ancora di più.

 

Di più? Ma non sono le società esterne come la sua a far vivere la Rai, a produrre contenuti?

Sa che questo è vero ma non è vero? Dal punto di vista del dato industriale, la Rai produce esternamente meno contenuti dei servizi pubblici di altri paesi europei. I numeri, che sono argomenti testardi, raccontano che la produzione esterna in Italia è inferiore a quella di altri paesi. Sento spesso dire: quanto è fica la BBC! Però la BBC ha un obbligo di trasmissione, per legge, dal 25 al 40 per cento, a seconda dei generi, per le società indipendenti. In Inghilterra, i canali free to air finanziano l’80 per cento degli investimenti della produzione audiovisiva - e questi sono i dati dell’anno scorso. In Rai, la produzione esterna sta intorno al venti per cento di ore trasmesse, che è un dato basso soprattutto se si considera che l'azienda, tra gli obblighi che ha per contratto in quanto ente di servizio pubblico, ha quello di essere volano dell’industria dell’audiovisivo, che è un’industria importante in Italia ed ha un know how specifico che viene dalla storia del nostro cinema. Ecco perché, quando viene detto che la Rai dà tutto fuori e fa lavorare soprattutto le società esterne, io rispondo che, invece, non lo fa abbastanza.

 

Cosa fa da ostacolo?

La Rai è molto grande e quindi ha prima di tutto un problema di gestione industriale da risolvere. La domanda che mi pongo è un’altra, allora: è giusto che il servizio pubblico sia mastondontico?  La mia esperienza personale con l’azienda è positiva, ho sempre collaborato da esterna, e ho cominciato senza fare fatica, per merito. Una cosa che la Rai faceva e fa ancora è segnalare e promuovere i giovani talenti. Alla Stand By Me ha sempre proposto giovani registi o sceneggiatori, venuti fuori dal premio Solinas o dalla scuola di sceneggiatura. La fedeltà alla vocazione e al dovere di scouting è invariata, almeno in questi ultimi vent’anni, sebbene siano proprio gli anni in cui la politica è entrata in modo più prepotente e scomposta nella gestione dell’azienda. Ora. Se la BBC, esternalizzando e comprando prodotti fatti da case indipendenti, ha determinato il successo dei prodotti inglesi sul mercato internazionale, perché la Rai non fa lo stesso? Va bene, la BBC è aiutata dalla lingua inglese, ma dovremmo anche noi puntare a esportare il nostro mood culturale. Il legislatore dovrebbe aiutarci in questo senso. Il settore ha una vivacità che lo stramerita.

 

La televisione sopravviverà?

Certamente. Il racconto per immagini sarà sempre più presente nella nostra vita.  Lo streaming ha rivoluzionato tutto, il televisore è diventato un device. Gli streamers diversificheranno sempre di più la loro offerta: non solo una grande library in cui scegliere ma, come sta in parte già accadendo, canali sempre più targettizzati ed eventi live. La sfida sarà bilanciare la produzione e quindi la cultura locale con la produzione globale di stampo anglosassone.

 

Non ha paura dell’algoritmo?

E perché mai. Non è che una forma più raffinata di auditel. Se ci sono gli algoritmi, usiamoli. Sono ottimista e mi piace il futuro – quelli che dicono che era meglio prima, di solito prima non c’erano. L’algoritmo non può fare che bene se chi crea l’offerta propone qualcosa in più, fa un passo avanti, alza l’asticella. Dagli editori che decidono cosa produrre mi aspetto che abbiano questo tipo di ambizione, che ragionino al rialzo e che certamente usino l’algoritmo per sapere cosa funziona, ma pure che abbiano quel grado di arroganza che serve a rischiare.

 

Mi faccia un esempio.

Se funzionano i programmi sugli occhiali, invece di fare un altro programma sugli occhiali, bisogna inventarsene uno sui binocoli. È questa la mediazione intellettuale necessaria nella lettura degli algoritmi. Per scegliere cosa produrre ci vogliono vanità e coraggio, non indicatori.

 

Lei è vanitosa?

Eccome. E arrogante, anche. Lo sono stata soprattutto da giovane. Lo dico alle mie ragazze: potete permettervi adesso di pretendere di più, osare, tirarvela. La giovinezza serve a questo. Quando uscì l’articolo di Ceccarelli sul congresso, Giuliano Ferrara mi chiamò e mi chiese di dargli il girato: risposi di no. Io ero del Pci, lui era già passato dall’altra parte. Lo feci per intransigenza e fedeltà. Lo feci anche per arroganza.

 

Se ne è pentita?

Ma no. Anche se lavorare con Ferrara, che ho conosciuto anni dopo, sarebbe di certo stato uno spasso.

 

Lei dice che ci vuole vanità per fare scelte coraggiose, ma si può fare se si hanno delle certezze economiche.

La mia vanità è superiore all’aspetto economico. Mio padre mi ha trasmesso un assunto non barattabile: siamo lavoratori ma non siamo in vendita.

 

Di suo padre parla con grande tenerezza.

Sa che non mi chiamo Simona, ma Simonetta? Quando lui andò a registrarmi all’anagrafe, come si faceva allora, anche se era stato deciso che mi sarei chiamata Simona, gli venne spontaneo dire Simonetta perché per lui ero minuscola: la terza figlia, la più piccola. Arrivai molto dopo le altre due, quando erano già grandi.

 

Dovrebbe farsi chiamare Simonetta da tutti. È un nome bellissimo. Ed è il suo, d’altronde.

Ha proprio ragione. D’ora in poi lo pretenderò. Non è mai troppo tardi.

 

Lei lavora come una matta. Riesce a godersi la sua famiglia?

Mi è capitato di lavorare anche con mio marito.

 

Terribile.

Ne abbiamo attraversate di tempeste, sa? Anche un adulterio.

 

Superato?

Certo. Le relazioni, se sono valide, non si buttano all’aria per un tradimento, anche se subirlo è dolorosissimo. Io ho poi preteso che lui si tatuasse una S sulla mano.

 

Così tutti vedono che è impegnato?

La fede si toglie, il tatuaggio no.

 

Quali sono le storie che la accendono?

Quelle delle persone normali. Non lo dico nel senso dell’uno vale uno, ma delle curiosità e dalla profondità di analisi. Bisogna avvicinarsi alle persone, parlarci, scavare: da molto vicino, tutti abbiamo dettagli che raccontano storie incredibili, che la maggior parte delle volte valgono la pena di essere dette. Uno dei programmi che più mi sono divertita a fare è stato “Amori”. Era un mokumentary. Adattavamo a persone semplici, normali, le storie dei grandi romanzi classici e poi gliele facevamo interpretare. Svelavamo solo alla fine che era tutto finto e che era tratto da Madame Bovary o Lady Chatterley. Era un bellissimo rovesciamento. Il mio lavoro si fa anche così.

Ovvero come?

Guardando la realtà da tutti i punti di vista, in modo equanime. Una cosa che faccio sempre con i miei collaboratori, proprio come forma di esercizio, è di pensare in modo diverso dal mio, dal nostro. Immaginare come un altro vedrebbe la stessa cosa, la stessa storia.

 

Cosa sogna di fare ancora?

Un documentario sui leoni bianchi della Namibia. Cosa darei per andare nel deserto e aspettare che passino, con in mano una telecamera!

 

E se non passano?

È proprio quello il bello. La sfida.

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.