L'intervista della domenica

È bello fare del cinema

Simonetta Sciandivasci

Fellini, le bugie, il cambiamento, le finestre, le spie, il sigaro del Tenente Colombo, un gatto molto puntuale. Conversazione con Samuele Bersani 

Il titolo, "è bello fare del cinema", è un verso di una canzone di Francesco Guccini del 1993 che è perfetta per oggi, quando dice: “Non c’è niente che valga la pena e così siamo vivi”. Ed è perfetta per Samuele Bersani, quando dice: “Per capire la storia non serve un discorso più grande, signorina cultura si spogli e dia qui le mutande, lei deve fare del cinema, mica roba pervertita, ma un soggetto che serva alla vita”.
Le canzoni di Samuele Bersani mi sono sempre sembrate quel soggetto, minuscolo, che serve alla vita: ciao ciao belle tettine; lascia crescere le pere; menta e marijuana; asino da presepe; testa dura testa di rapa. Lo stesso soggetto che serve al cinema, che c’è sempre, in tutti i suoi dischi - come Mastroianni anni fa; ti fermeresti per la scena ancora un po’ che ti riprendo; chiama Fellini anche se sogna lo puoi svegliare; ancora un altro film di Alberto Sordi alla televisione.
È nato a Rimini, da un papà flautista che considera il suo maestro – “anche se ci ho litigato abbondantemente tutte le volte che ha provato a insegnarmi il solfeggio” – e una mamma insegnante, entrambi ex ragazzi del PCI e suoi grandi amori, gli unici che mostra su Instagram.
A cinquant’anni e un giorno, lo scorso 2 ottobre, ha pubblicato il suo nono disco e lo ha chiamato “Cinema Samuele”. Sulla copertina c’è una nave che sembra il Rex di Amarcordricordate la scena?

E le canzoni, come e più di sempre, sono piccole sceneggiature. Storie da sala scritte da un realista visionario, che sono vere perché qualcuno le ha raccontate, e le ha raccontate perché le ha viste succedere. 

È pur sempre un pescatore di asterischi, Samuele Bersani. Va in giro. Va a pesca. Spia. Osserva. Ha ancora la curiosità del bambino che era quando aveva vent’anni e Lucio Dalla lo fece salire su un palco a suonare – insieme a lui scrisse poi “Canzone”: Dalla aveva 53 anni e Bersani 26 (VENTISEI!).
 

 

In una delle sue prime interviste, era il '92 o forse il '93, lei disse che le piaceva vivere di momenti e che nelle sue canzoni non parlava mai di sé. Conferma?

Non potrei più dirlo con la stessa nettezza, ma mi fa piacere averlo detto all’inizio, quando avevo vissuto troppo poco per parlare di me e non potevo che essere semplicemente uno che raccontava ciò che immaginava, intuiva o respirava degli altri. Naturalmente, capita di parlare di sé immaginando di farlo anche a nome del proprio vicino di casa, le combinazioni bizzarre della vita fanno sì che una storia raccontata da te mi sembri la mia, ma io ho quasi sempre cercato di scrivere dopo aver vissuto ed è per questo che i miei dischi più autobiografici sono gli ultimi due.

 

È vero che esistiamo nel racconto degli altri? Che la prima volta che incontriamo la nostra identità è quando sentiamo qualcuno che parla di noi: è lì che cominciamo a definirci?

A me capita soprattutto di riconoscere e anzi proprio di capire il mio lavoro dall’analisi e dal racconto che ne fanno le persone che magari non erano neppure con me mentre lo scrivevo, eppure sembrano averlo capito meglio di me, perché lo hanno ascoltato e fatto proprio. Nella vita, poi, c’è bisogno della sintesi esterna che gli altri fanno di te, purché non sia puro sarcasmo. Sono preoccupato dall’eccesso di sarcasmo che riserviamo agli altri e noto che, quando lo facciamo, manchiamo completamente di autocritica verso noi stessi, il che è un bel paradosso: dovremmo almeno riservarci lo stesso trattamento che riserviamo agli altri, dovremmo giocare con noi stessi così come giochiamo con gli altri. Di certo, ciascun aggettivo che usiamo per qualificare il nostro prossimo, lo porta almeno a una riflessione profonda, quando non proprio a una identificazione: è come con le canzoni, a volte le ascolti e ti sembra che siano state scritte da uno che è venuto a spiarti, che abita in casa con te come un fantasma.

 

Io se abitassi nella sua stessa città avrei sempre il terrore e l’adrenalina di finire in una sua canzone. Mi sentirei osservata. E penso sia una cosa bella, penso che sarebbe un mondo migliore se tutti pensassimo: quello che faccio per strada potrebbe finire in una canzone pop, sarà bene regolarmi.

Sarebbe interessante, forse bello, ma produrrebbe un’abitudine. Io a un certo punto, per scrivere, ho dovuto perdere le mie, di abitudini, e mi sono trasferito a Milano, in una casa che era anche lontanissima dal centro: in un anno non ho mai visto il Duomo. Un’altra volta ho affittato una casa a Parma.

 

Bella Parma!

La scelsi perché stavo lavorando agli arrangiamenti delle canzoni con Pietro Cantarelli, che vive lì. Rimanevo in studio tutto il giorno e poi me ne andavo a spasso in questa città sconosciuta e fotografavo tutto, però non con la macchina fotografica, e poi fantasticavo e alcune mie passeggiate sono diventate canzoni.

 

La immagino sempre in giro con il taccuino, oppure affacciato a una finestra sempre aperta.

A volte la finestra è aperta solo per cambiare idea. La curiosità non mi è mai passata, nemmeno quando facevo fatica a tradurla in musica e parole, e mi agitavo moltissimo prima di capire che stavo semplicemente immagazzinando. Perché ci vuole tempo: tra la storia che ti succede davanti e te che la racconti, può passarne parecchio.
 

 

Non ha paura che, se cambia idea, il pubblico non glielo perdoni?

Il tenente Colombo aveva il sigaro e noi lo immaginiamo sempre così, ma le storie di cui era protagonista erano sempre diverse. Io mi auguro questo: che di me un giorno si possa dire qualcosa per sintesi, che mi renda riconoscibile, ma pure che i miei lavori non siano tutti uguali. Io inserisco sempre ingredienti diversi, man mano che li scopro. Ovviamente, se mi accorgo di fare una canzone che magari assomiglia a una che ho scritto già non do di matto, so che è normale, ma cerco di non cullarmici, anche perché c’è già la mia voce a omologare tutto. La mia voce è un po’ il mio sigaro.
 

 

 

Teme mai che l’ispirazione finisca?

Il primo disco l’ho scritto nel ‘91 e da allora ho avuto almeno tre volte un blocco che avrebbe avuto bisogno magari di terapia. Invece ho aspettato che le cose si sbloccassero da sole, che il calcare si staccasse dai tubi del cervello senza il mio intervento: tutte le volte, sono ripartito. Far trascorrere il tempo è un lusso ma pure un dovere, a me serve ad arginare il terrore che ho di ripetermi. Mi scoccia molto quando vado a vedere una mostra e vedo che il pittore fa sempre lo stesso quadro. Allo stesso modo, quando ascolto le canzoni degli altri, a volte mi arrivano coriandoli di colori diversi, altre volte mi sembra sempre che siano manciate dello stesso colore. E quando sento il peso di quella uniformità, di quella ripetizione che diventa convenzione, sicurezze, io da fan un pochino mi risento. A me piace che uno si tradisca, che sperimenti, anche fallendo, che importa. Io cerco sempre di trovare un’altra pelle, e anche questo richiede un bel po’ di tempo.

 


l cinema, nel disco, le è servito per dire qualcosa sulla verità?

Penso al cinema di Fellini che è una rappresentazione più vera del vero: la sua Roma, la sua Rimini sembra assurdo che siano ricostruita sul set. Io quando ero ragazzo non avevo il videoregistratore, i miei genitori lo comprarono molto tardi, quando io mi ero già abituato ad andavo a letto ascoltando la musica e che poi, al buio, mi proiettava immagini nella testa. È per questo che io scrivo anche moltissimo per immagini. E le volte che sono stato regista dei miei video mi sono divertito immensamente. Nel cinema, poi, la musica è fondamentale. Delle canzoni si parla sempre dei testi e mai della musica: è un argomento che scivola come un’anguilla. In un film, invece, è parte della narrazione.

In una canzone la musica viene prima dei testi? Serve a dire quello che le parole non sanno dire o a rafforzarlo?

Per me la musica è la protagonista. Vale per i pezzi stranieri ma pure per quelli italiani: ascolto solo dopo quello che dicono, ci faccio caso in un secondo momento. Quando scrivo, i suoni, l’arrangiamento, le pause, la forma canzone e quindi i 3 minuti e mezzo anziché le 340 pagine del romanzo, fanno sì che a un certo punto io possa trovare l’argomento, ma quell’argomento è dato anche dal suono che prima ho creato, ho costruito, quindi ogni canzone ha avuto quel tipo di percorso lì, per me. Naturalmente, ce ne sono alcune nate perché avevo scritto su un post it una frase che aveva già un bel ritmo musicale.
 

Non mi ha risposto sulla verità: esiste, non esiste, è alla nostra portata?

Credo che esista. E che sia sempre difficile da individuare perché è più forte la verità che vogliamo sentire della verità vera. Io poi sono della bilancia…

 

No, guardi, io di segni zodiacali non capisco niente.

Nemmeno io.

 

E allora?

Mi dicono…

 

Ah, certo, le dicono…

Sì, mi dicono che la bilancia cerca un punto di equilibrio tra verità propria e fatti. E per questo fatica a prendere decisioni. La verità è aerea, mentre di certo so che la menzogna è concreta, quasi materica. Io se ne dico una, mi si vede subito in faccia, esce proprio il sottopancia: attenzione, sta mentendo!

 

Grosso problema.

Enorme. Ma non so se invidiare i campioni mondiali che la bugia l’hanno fatta diventare una virtù. Poi ci sono quelli come Fellini, che era un grande bugiardo e peraltro ne andava fiero, lo rivendicava. Aveva stilato una classifica dei più grandi bugiardi: il primo era lui, il secondo Pinocchio, il terzo Lucio Dalla.

 

Ma Fellini diceva anche che mentire lo salvava dalla noia della realtà.

Certo. Le sue erano menzogne creative. In fondo, una bugia è sempre creativa. Non è un parallelo della verità: è un’invenzione.

 

Lei è geloso di quello che scrive? Glielo chiedo per mettere alla prova la sua sincerità, perché voglio anche sapere se le dà fastidio quando un politico che non la pensa come lei, usa una sua canzone. So che è successo.

Che posso farci: si usano le canzoni pop, che sono le più trasversali, spesso strumentalizzandole. E sì che mi stride, un po’ mi infastidisce. Però non ci si può far niente, è inevitabile e sarebbe ingiusto discostarsene, indignarsi. Io la paternità dei miei pezzi la avrò sempre, ma conta poco: conta il passaparola, conta che le persone usino la mia musica per appoggiarcisi, come si fa con un muretto quando ci si deve allacciare le scarpe. Vede, le canzoni a volte hanno un potere non dico terapeutico ma di certo benefico: hai bisogno di un sostegno e le trovi, un po’ come quando ti innamori quella volta che non volevi uscire. Le canzoni degli altri mi hanno dato una mano spesso, nella vita. Le mie, invece, smettono di darmela dopo che le ho scritte.

 

Cioè?

Se a volte mi fossi ricordato che ciò che avevo scritto nel momento in cui l’ho scritto mi era sembrato sacrosanto, insomma se no lo avessi dimenticato, forse avrei fatto meno errori.

 

Quindi l’artista e l’uomo non combaciano?

Vede, io ho soltanto tormenti personali, non professionali. Può succedere che il lavoro mi frustri, mi deluda, ma è con la vita che devo fare i conti tutti i giorni. La vita. Per esempio, tra poco dovrò lasciarla perché il gatto mi guarda con aria minacciosa: vuole la pappa, è ora.

 

Mi dica solo un’altra cosa, allora. Lei è soddisfatto? Sogna ancora?

Ancora è una parola enorme. Va ben oltre le tre sillabe che la compongono. E credo di avere molto tempo per riempirla. Non ho perso la fame e sono curioso di vedere quello che succederà. È un anno che aspettiamo di uscire, un anno che immaginiamo di stare con gli altri: chissà che grande ricompensa ci aspetta.

 

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.