Franco Mussida (foto Stefano Albanesi per gentile concessione)

L'intervista della domenica

Una musica può fare

Simonetta Sciandivasci

L'insegnamento in carcere, la PFM, il suono, il corpo, Babbo Natale, Impressioni di settembre, l'esperanto. Conversazione con Franco Mussida 

 

Parlo con Franco Mussida per due ore. Lo chiamo Maestro. Mi scrive, qualche ora dopo, chiedendomi se non sia stato troppo pesante, mi confessa d’avere sempre questo cruccio, e mi allega una lettera a Babbo Natale che un giornale locale gli ha chiesto di scrivere. È proprio una letterina, ha quel tono atemporale che hanno le parole dei bambini, e finisce così: “Non c’è fretta, lo so che prima o poi lo farai. Comincio ad aspettare e questo già mi fa sentire contento”. Quel verso di De Andrè che dice “Non volli tradire il bambino per l’uomo”, lo descrive perfettamente. Con De Andrè, Mussida ha lavorato, suonato, avuto a che fare insieme alla band di cui è stato tra i fondatori, la PFM. “Impressioni di settembre” l’ha scritta (anche) lui: penso alla fortuna che hanno i suoi allievi a imparare a suonare e ad ascoltare da chi ha scritto un pezzo come quello, lirico e lucente, con dentro l’assoluto. Dal 1984, il Maestro insegna in una scuola che ha contribuito a far nascere, il CPM Music Institute di Milano, dove, nel 2006, è stata registrata la prima puntata di X Factor Italia anche se lui, con i talent show, non c’entrava nulla allora e non c’entra niente neanche adesso. Nel 1988 ha cominciato a lavorare con i detenuti di San Vittore e, da allora, non ha più smesso di fare ricerca per portare e insegnare la musica in carcere. Ha scritto libri, esposto sculture, scritto canzoni, ideato progetti di educazione all’ascolto. Soprattutto, ha studiato. Studia. Studia sempre. Lavora sempre. Il suo ultimo libro si intitola “Il mistero che trasforma la musica in emozioni” e ripensa il significato della parola verbo partendo dal Vangelo di Giovanni.

Non si stanca mai?

Come potrei stancarmi se non ho lavorato neanche un giorno in vita mia?

Neanche uno?

Io vivo di musica, nel senso proprio materiale: è la musica che mi dà il pane. Il successo, diceva Confucio, è campare di ciò che si ama, così non si lavora neanche un giorno.

Ai suoi allievi lo ha detto? Saranno contenti!

Da noi ci sono più di 460 ragazzi. Arrivano da tutta Italia. Mahmood ha studiato due anni da noi prima di andare a Sanremo. Formiamo persone che scelgono la musica per servirla e non perché la musica possa servire loro. Ci sembra il modo migliore, non voglio dire giusto, per vivere la musica per ciò che è: un’arte.

Dei talent show cosa pensa?

Penso prima di ogni cosa che hanno avuto il merito di portare la musica nella televisione generalista. Prima, Sanremo a parte, non la voleva nessuno perché non faceva audience, o almeno così si pensava. Succedeva perché la musica è un’arte e non uno sport: fintanto che non si è riusciti a inserirla in un format che avesse un meccanismo competitivo, che nominasse vincitori e vinti, è rimasta fuori dai palinsesti – ci pensi: Sanremo, in fondo, è una gara. A X Factor i musicisti sono impiegati nella realizzazione di un prodotto che soddisfa gli editori, che altrimenti faticano a vendere il proprio catalogo, e soddisfa il pubblico, che diventa giudice. Si tratta di uno spettacolo dove tutto è ben congegnato per mettere sul mercato qualcosa che funzioni. Il suono della voce e l’intenzione emotiva dei ragazzi sono le sole cose autentiche.

Lei ha dedicato molta attenzione allo studio del suono. È un fatto piuttosto raro.

E non dovrebbe esserlo, perché il suono è un elemento fondante della comunicazione affettiva e questo lo rende l’elemento che, più di tutti, dimostra come la musica sia fondamentale nella vita delle persone. Vede, io e lei, in questo momento, mentre parliamo, facciamo musica, produciamo una melodia. La melodia questo è: un discorso.

Le è mai successo di non riuscire a trasferire in musica quello che sentiva o voleva dire?

Il talento può prendere forme la cui qualità è variabile e che quindi portano a esiti più o meno riusciti. Ci sono geni che costruiscono imperi con cose complicate come Schonberg, o artisti che con un niente fanno la storia della musica, come BB King, che non aveva bisogno del trattato sull’armonia per poter comunicare in modo grandioso usando semplicemente la tonica. Una nota soltanto, quella nota dalla quale parte qualsiasi scala: lui sulla tonica ci stava sempre, la ripeteva continuamente, ossessivamente. Tanto nella complicazione assoluta quanto nella semplicità, mi sono reso conto che tutto dipende da un'intuizione, un baluginio di un attimo che a un certo punto ti attraversa. Affinché quella intuizione si manifesti, però, è necessario creare delle condizioni: un clima ispirato che si ottiene sospendendo il tempo, standosene appartati, concentrati. Se si è capaci di entrare in una dimensione così pura e intima, incontaminata e vasta, le intuizioni, le note, le canzoni arrivano e sono già pronte per essere offerte. Noi non siamo la punta dell’iceberg e nemmeno il centro di tutto: siamo una parte di qualcosa di gigantesco e vario e profondo, un universo dal quale dobbiamo lasciarci attraversare e frequentare. L'ispirazione esiste se le consentiamo di raggiungerci: se lavoriamo affinché ci raggiunga. Una volta che accade, non può esserci nessun ostacolo all'espressione: il difficile è prima, non viene dopo. 

 

Parla di un processo che mi pare agli antipodi dello streaming e dei modi di produzione che ha generato. 

Un tempo la produzione musicale cercava talenti naturali. Gli studi di Memphis e Londra erano affamati di talenti che fossero capaci di raccontare con la musica, e magari anche senza le parole, la nostra realtà.  L’autenticità, l’elemento di verità che stava in quelle persone che vivevano e realizzavano la musica fisicamente, da Dylan a Gaber, è scomparso. Quella verità dipendeva dal fatto che quegli artisti vivevano nella pienezza del loro legame intellettuale ed emotivo con la musica, ed era un legame che li esortava a una ricerca costante. La musica autoriale tracciava la strada, dava orientamenti, conduceva: si spingeva in avanti, sperimentava, osava. Oggi questo è sempre meno evidente: è diventata più importante la cronaca. Chi fa cronaca realizza prodotti che soddisfano il bisogno di restare nel presente, si muovono in un perimetro già tracciato, senza fare balzi in avanti. Tutto adesso viene lungamente pensato e costruito, eppure è effimero, nutre solo l’attimo di produzione. La genialità prima consisteva nel dar vita a qualcosa che potesse stupire e rimanere, che avesse la qualità di far sognare, aprire varchi, inaugurare strade nuove. Ora, il genio è chi produce qualcosa di massimamente godibile in un istante preciso e irripetibile. I prodotti di oggi sono sempre di più perché hanno una vita sempre più breve. Appunto: scorrono nello stream, nel flusso.

Giochiamo. Sono il ministro dell’Istruzione e mi rivolgo a lei per strutturare l’insegnamento della musica nelle scuole. Cosa mi consiglia di fare?

Caro ministro, innanzitutto le direi di chiamare anche molti altri suoi colleghi: la musica non è un settore a sé, anzi la musica non è neppure un settore, ma un linguaggio. Per lavorarci si deve interagire con altri mondi. Per prima cosa, è importante insegnare ai bambini che il suono è uno strumento di relazione e che la musica si manifesta e si realizza nel rapporto intimo tra le persone. Per questo dovremmo smetterla di concentrarci solo sulle forme e sulla storia, come fanno anche i conservatori e le scuole di musica, così da riposizionare ciò che è essenziale. E, soprattutto, dobbiamo smetterla di credere che l’ora di musica in classe serva a qualcosa: non è che un momento di ricreazione. Se teniamo presente che la musica ha un rapporto sempre diverso con le età evolutive dell’uomo e che le persone crescono con la musica, ci rendiamo conto che un’ora a settimana di educazione musicale alle elementari è del tutto inutile.

Doterei le classi di strumenti raffinati di tecnologia del suono e mi divertirei a far riprodurre ai ragazzi dei suoni virtuali che ricreino, che so, il suono del fagotto, e alla fine inviterei un fagottista a suonarli.

Si deve poi lavorare sul valore e sul senso della qualità, insegnare a riconoscerla. Per questo, creerei una sezione nuova del MIUR che si occupi della formazione di educatori: nella musica non ci sono solo i musicisti performativi, quelli creativi e gli insegnanti. C’è anche bisogno di un educatore che ascolti insieme al pubblico e lo renda consapevole di quello di cui fruisce. Qualcuno che trasformi l’esperienza dell’ascoltare in quella del sentire e del sentirsi. Una categoria di cui non si parla mai è quella degli ascoltatori, che sono del tutto abbandonati a loro stessi, senza una guida, senza nessuno strumento che li aiuti a orientarsi, a scegliere, a godere di quello che ascoltano comprendendolo.

 

Le riviste musicali le mancano? 

Ai miei tempi, un'epoca più o meno preistorica, leggevamo Buscadero. Ma devo essere onesto: il giornalismo musicale, per un musicista, al di là del piacere di ritrovarsi recensito e magari incensato, non era granché interessante nemmeno allora. Per una ragione semplice, la stessa per la quale i calciatori non stanno dietro alla Gazzetta dello Sport: chi scrive di musica, non la suona. Chi scrive di sport, non lo fa. Ma questa è una visione di parte. In assoluto, invece, penso che la critica musicale sia scomparsa dai giornali perché l'offerta del mercato non è che un prodotto e del prodotto non si può che dire se ti piace o non ti piace. 

 

C’è una possibilità che il nostro presente non sfrutta?

Sì: non riusciamo a comunicare il valore delle cose. Di questo do la colpa alla mia generazione: noi abbiamo goduto di quel valore, della sua capacità di unire la gente, di farci sentire vivi, ma non siamo stati capaci di trasmetterlo. Negli anni Settanta credevamo che la musica avrebbe cambiato il mondo: lo sentivamo istintivamente, ma non sapevamo come procedere per far sì che diventasse reale. Cambiare significa prima di tutto trasformarsi dentro: la musica, usata come arte, come scienza umanistica, è in grado di provocare quella trasformazione, ma le occorre tempo, forse centinaia di anni. Soprattutto, non può farlo attraverso una canzone: serve un'idea diversa di musica. Quell'idea noi credevamo che avrebbe rivoluzionato tutto e io penso ancora che possa farlo, a patto che la sleghiamo dalle forme e impariamo a considerarle per quello che sono, ovvero un bel contenitore. In fondo, credo che la musica sia un codice ancora tutto da scoprire. La sua azione non si vede come non si vede ciò che abbiamo dentro: prima o poi, però, si manifesta. Se noi stessi siamo l’invisibile che prende forma, anche la musica a un certo punto concretizza il suo mistero.

Conta ancora saper suonare?

Prima di tutto, bisogna tenere a mente che suonare con il proprio corpo e suonare attraverso le macchine non sono due aspetti polari, ma complementari. Il nostro è un tempo nel quale è essenziale lavorare a questa complementarità. La complessità messa a disposizione da un corpo, a partire dalla micro gestualità delle dita o dall’educazione del respiro per l’emissione della voce è importante al pari della fantasia e della possibilità che la tecnologia offre di creare suoni che in natura non ci sono, aprendo scenari che offrono nuove possibilità creative. Si tratta, naturalmente, di due esperienze diverse ma essenziali per parlare al nostro tempo, ora che intelletto e sentimento anziché abbracciarsi e produrre coscienza, quasi si respingono. Io lavoro per quell’abbraccio. 

La musica suonata fisicamente entra più in profondità, mentre quella elettronica favorisce risposte istintive, lascia poco spazio all’elaborazione emotiva, offre un portato di automatismi ritmici che divertono, liberano, talvolta ci svuotano.

Lei lavora in carcere da molti anni. 

Lavoro al Beccaria e con i tossicodipendenti. Ho cominciato a San Vittore, molti anni fa. Al Beccaria, a metà gennaio, presenteremo Swimmer, un’interfaccia che consente ai ragazzi di avere un approccio alla musica strumentale, quella che non ha bisogno di parole e che loro non conoscono, perché conoscono solo la musica legata alla parola: il rap e la trap.  

Con Swimmer, partendo da video di batteristi, ciascuno sceglie una cadenza ritmica e fa un percorso che consente al programma dell'interfaccia di prevedere una predisposizione temperamentale prevalente. L’ascoltatore viene così condotto in una audioteca, che abbiamo chiamato CO2, dove ascolta soltanto musica strumentale, divisa per stati d’animo e generi. Questa audioteca, per ora, è installata in 12 carceri italiane. Avremmo dovuto inaugurare in queste settimane un impianto di diffusione della musica nei grandi corridoi del carcere di San Vittore, ma non ci siamo riusciti per via del covid. 

Kento, rapper, ha raccontato a questo giornale che quando insegna musica in carcere, il linguaggio che tutti conoscono meglio è sempre quello del rap.

Certo. Il rap consente loro di parlare. La musica è il linguaggio delle intenzioni emotive e quindi non necessita di parole, ma a chi vive in carcere viene più naturale parlare. Dalle periferie è normale che esca il rap. Lì i ragazzi diventano adulti subito, non hanno il tempo di assimilare l’elemento musicale e usano quello che hanno a disposizione nell'immediato: le parole.   

 

Quando ha capito che la musica sarebbe stata il suo mestiere?

Avevo cinque anni e passavo tutti i sabato sera con la mia famiglia e quella dei miei vicini ad ascoltare mio padre che suonava la chitarra. Mi domandavo da dove uscisse il suono: lo capii solo quando diedi un pugno alle corde e mi resi conto di quello che succedeva nella cassa armonica. Mi apparve sensazionale. Cominciai a suonare di nascosto, copiando tutto quello che faceva mio padre. A undici anni dissi che volevo imparare e cominciai a studiare. A trent' anni, che è più o meno l’età in cui ci liberiamo dei lasciti familiari e siamo in grado di scegliere senza essere condizionati, capii che la mia strada era questa.

 

Mi dice la cosa che più l'ha impressionata nella sua carriera?

Mi ha segnato il fatto che un inglese ha tradotto in parole inglesi i contenuti della nostra musica. Mi riferisco a Peter Sinfield, che ha tradotto in poesia inglese il potenziale immaginativo musicale della PFM. Mi ha fatto capire che la musica è un linguaggio universale assoluto, totale. Affratella gli uomini.

 

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.