Diana, Camilla e il barbour

Chiara Galeazzi

Le metafore di “The Crown” e l’invasione delle giacche cerate da caccia che hanno ucciso il romanticismo

Quanto puzzano le giacche cerate. E’ un odore talmente pungente che forse il tessuto non è idrorepellente, ma è l’acqua ad allontanarsi schifata. Io poi sono particolarmente toccata dalla questione perché ho preso una giacca cerata Barbour Bedale in un mercato dell’usato di Londra nel 2012 pagandola poco, talmente poco che probabilmente era il tentativo di sbarazzarsi della prova di un crimine. L’impressione è che dentro ci sia morto qualcuno, nello specifico un mammifero marino. La acquistai insieme a una tazza ricordo del matrimonio di William e Kate, ormai svenduta visti i vari mesi passati dall’evento, una maschera in cartoncino della regina Elisabetta e una del principe Filippo.

 

Negli anni a seguire, quando l’angoscia prendeva il controllo dei miei pensieri, immaginavo fenomeni catastrofici mondiali o esprimevo la volontà di stare chiusa in casa da sola senza credere che mi sarei realmente trovata in queste situazioni. Invece nel novembre 2020 sono in casa a cercare di togliere per l’ennesima volta l’odore di muffa e cotenna da quella giacca usata tenuta chiusa per anni in un armadio nel tentativo di emulare in un bilocale di Milano nord le atmosfere aristocratiche di una serie televisiva. La quarta stagione di “The Crown”, la serie che racconta il regno di Elisabetta II a partire dalla morte di suo padre Giorgio VI, è ambientata negli anni ’80 e mostra alcune tappe importanti della storia della Corona svoltesi al castello di Balmoral, in Scozia.

 

In particolare due eventi: una vacanza cui è invitata Margaret Thatcher e la prima presentazione alla famiglia di Diana Spencer in qualità di possibile futura moglie di Carlo. In questo contesto, le altezze reali presenti indossano solo giacche cerate. Immaginate quanto dovevano puzzare. Quanto puzzava la regina mentre diceva alla Thatcher, che inciampava per i boschi nel suo inadatto cappottino blu di Persia, di indossare meno profumo. Quanto dovevano puzzare Diana e il principe Filippo mentre tornavano vittoriosi da una battuta di caccia in cui abbattono insieme un cervo reale. A proposito di questa scena: io speravo non fosse una metafora, ma a quanto pare quasi tutti gli animali abbattuti nella serie sono sempre metafora di qualcosa.

 

Oltre a pregare gli autori di smettere di gingillarsi con queste trovate e di concentrarsi su ulteriori modi di inserire cani corgi all’interno delle scene, vorrei anche io sottoporre una metafora al creatore della serie Peter Morgan nel caso cercasse nuovi collaboratori: la Corona è una giacca cerata, bellissima da lontano, con un pessimo odore da vicino, e che ti unge appena la tocchi. E’ una metafora dozzinale quanto quella del cervo reale ucciso da Diana (nome della dea caccia, e tutto torna come una cena mai digerita), ma almeno nella mia nominiamo un brand che potrebbe dare due lire in più alla produzione. Prima del 15 novembre di quest’anno, le mie conoscenze su Lady D erano disordinate.

 

Diana Spencer è morta il 31 agosto 1997, avevo dieci anni e le immagini dell’auto ferma sotto il tunnel a Parigi le vidi a casa di mia nonna. Lei sapeva tutto della famiglia reale inglese, per me erano quei signori ridoppiati a Striscia la Notizia. Ovviamente sapevo anche che il principe William era bello e che magari potevo arrivare a sposarmelo, come Ambra Angiolini nel film “Favola” del 1996 sposa il principe Alfonso di un non meglio precisato principato. In quei momenti, per me Diana era la Lady madre del mio futuro sposo, era separata dal principe Carlo e aveva in qualche modo a che fare con la lotta contro l’Aids – che bella l’infanzia negli anni ’90, quando per stare al mondo ti bastava un Soldino del Mulino Bianco, sapere cos’era un pedofilo e che se toccavi le siringhe ti veniva l’Aids.

 

Per il resto percepivo la tristezza dell’occidente per quella morte, soprattutto nelle note struggenti di “Candle in the wind” di Elton John, che per altri vari anni ho creduto scritta apposta per il funerale di Lady Diana. Nel 2006 uscì “The Queen”, film diretto da Stephen Frears e scritto da Peter Morgan, il già nominato autore della serie che evidentemente capì di poter mangiare per molti anni a seguire sulle biografie della Corona inglese. E’ un resoconto della morte di Diana dal punto di vista della Regina. Mentre il popolo piange la sua principessa e il neopremier laburista Tony Blair critica l’assenza della famiglia reale da Londra, Elisabetta II sta immersa nei corgi e nelle giacche cerate a capire cosa fare.

 

Sapete che succede a un certo punto del film? Appare un cervo reale. La regina piange sola nei boschi e a un certo punto appare lui. Lei lo guarda, lui la guarda, e se ne va. Dopo un po’ scopre che l’hanno ammazzato, e lei va a fare il discorso a reti unificate sulla morte della madre dei suoi nipoti. Stiamo forse parlando di un’altra grande metafora? La risposta è la stessa di prima: spero di no, ma pare di sì. Ma a 20 anni non percepivo nessuna malizia, solo un grande affetto per quella signora che doveva adattarsi ai tempi che cambiavano, come quando spiegavo ai miei genitori come mandare una mail. Nel frattempo avevo recuperato qualche dato in più sulla storia personale di Diana: era l’icona di stile che aveva sfidato lo status quo della Corona ed era stata uccisa dai paparazzi.

 

Carlo le metteva le corna con quella che ora era la sua consorte, alla quale pare disse “Vorrei essere il tuo Tampax”. Una frase che al tempo giudicai disgustosa, ma in cui oggi vedo un apprezzabile superamento dello stigma del ciclo mestruale non da tutti. Il che non la rende meno disgustosa, ovviamente. Dieci anni dopo l’uscita di “The Queen” lavoravo come web editor di una rivista. Due giorni dopo essere stata lasciata da un fidanzato, mi mandarono in una doppia uso singola del Claridge’s Hotel di Londra per il mio primo e ultimo viaggio stampa. Un marchettone di grandissima classe, con gift bag, piogge di abiti gratuiti e gin tonic mandato in camera ogni giorno per tre giorni alle 18.

 

I gin tonic a partire dalle 19 li scroccavamo nel bar dell’albergo, che altri giornalisti sostenevano fosse il luogo in cui Dodi al Fayed chiese a Diana di fidanzarsi con lui. Non trovavo e non trovo alcun riscontro di questa informazione, mi chiedo se fossero più i gin tonic nel corpo di chi ne parlava o nel mio che forse avevo capito male, ma al tempo presi l’informazione come vera e lenì per un po’ il mio cuore spezzato. Pensavo a quella povera principessa con lo sguardo triste che stava per rifarsi una vita, e invece il mondo non le aveva lasciato tregua. Io ero stata mollata da un cretino e mi trovavo in un albergo di lusso a Londra per scrivere cinquemila battute su una mostra, poteva andarmi molto peggio.

 

E’ facile ossessionarsi su qualcosa quando non si ha niente da fare, e nel novembre 2020 non ho niente da fare. La sera di domenica 15 novembre 2020 inizio con scarso entusiasmo la quarta stagione di “The Crown”, dopo aver dormito durante la terza e dimenticato le prime due. Dodici ore dopo sto spruzzando una soluzione di acqua e aceto nel rivestimento interno del mio sempre più vecchio Barbour usato dopo avergli fatto le spugnature con acqua fredda e sapone mani, sognando servitori e boschi sterminati. 72 ore dopo sono disgustata, non solo dall’odore che non accenna ad andarsene, ma dall’aver incanalato troppe informazioni riguardanti la vicenda di Carlo e Diana dalla serie tv e da due documentari visionati subito dopo, per un totale di circa 15 ore di materiale, con pause solo per dormire e mangiare.

 

Sono scossa dal trattamento riservato a Diana, dai tradimenti, dalla sofferenza nascosta e dalla sconvolgente notizia che alla fine degli anni ’70 Carlo fosse considerato bono. Ma più di ogni altra cosa mi mette i brividi sentir ribadire una parola che speravo di non dover più sentire se non nell’oroscopone di fine anno di Paolo Fox: vergine. C’è un film francese del 2008 con protagonista Liam Neeson che mi è stato raccontato nella sua interezza da tre persone distinte, nessuna delle quali ha chiesto se fossi interessata a starle a sentire. S’intitola “Io vi troverò”, apoteosi del topos della damigella in pericolo. Liam Neeson è un ex agente della Cia divorziato e con una figlia adolescente.

 

Questa un giorno parte con un’amica per l’Europa, ma appena arrivate vengono rapite dalla mafia albanese che vuole farle prostituire. Visto che, per quanto eroe assoluto della vicenda, Neeson non fa altro che menare persone, in tutti e tre i casi in cui ho sentito questo racconto il focus andava su un dettaglio della storia: la figlia di Neeson viene venduta a uno sceicco perché è vergine, mentre l’amica non lo era, quindi non aveva valore, quindi muore. Curiosità: il 2008 è stato anche l’anno in cui la showgirl Raffaella Fico ha messo in vendita la sua verginità. Insomma, un grande anno per gli imeni.

 

Ripensavo a questo film, che continuerò a non guardare, quando nella ricostruzione del triangolo Diana-Carlo-Camilla si sottolineava come a Carlo non fosse permesso frequentare Camilla perché, dalle parole di due biografi nel documentario “The story of Diana”, non “appariva verginale” e che “come si dice, ‘quelli che ti porti a letto non te li puoi sposare’” così per trovare moglie Carlo l’ha dovuta “rubare dalla culla” – ribadisco che i virgolettati vengono dal documentario, non da un forum di incel. Quando l’agnello sacrificale mostra di avere più carisma dell’intera famiglia reale, parenti alla lontana compresi, “rubare dalla culla” non è sembrata più una grande idea, e il resto è storia recente.

 

Vorrei dirvi che i retroscena di questa vicenda hanno distrutto il sogno romantico del matrimonio con il principe azzurro, ma mentre scrivo questo testo ho la stessa età che aveva Camilla quando stava seduta nella cattedrale di St Paul a guardare il suo amante sposare una ragazza più giovane, più bella e più ben voluta di lei. C’è probabilmente qualcosa di romantico nella sua storia, quella della donna che resta nella vita dell’uomo che ama finché le circostanze li portano a realizzare il loro sogno di una vita insieme – come succede in “Sex and the City”, se Carrie Bradshaw si fosse sentita dare della vecchia babbiona per l’intera serie. Ma ammetto che il vero assassino del romanticismo in questa vicenda è il protagonista maschile.

 

Nelle distese della Scozia, Carlo si lagna continuamente delle troppe attenzioni che riceve Diana o della distanza da Camilla o di quanto sua mamma non gli abbia mai fatto un complimento, tutto il tempo indossando una giacca cerata identica alla mia. La sua compagnia doveva essere insostenibile sia all’udito sia all’olfatto. Certi esperti in abbigliamento maschile dicono che l’unico modo per affievolire l’odore delle giacche cerate è quello di continuare a indossarlo, finché non diventa sopportabile. Non c’è neanche bisogno che la espliciti io perché ci vediate una metafora del matrimonio.