Nelle “Lettere”, Dostoevskij diventa il personaggio letterario di se stesso

Marco Archetti

Un’opera monumentale, fra domande e infelicità

    Una sensazione inevitabilmente fraudolenta ci coglie nel momento in cui ci avviciniamo a un epistolario. Che poi sia la stessa ragione per cui godiamo della sua lettura, poco spiega e molto complica circa il rapporto che abbiamo – o possiamo avere – con esso. Chi è lo scrittore che speriamo di scovare in un epistolario? Quale correzione o aggiustamento crediamo possa offrirci? Quale precisazione dell’opera? “Lettere” di Fëdor Dostoevskij – a cura di Alice Farina e tradotto anche da Giulia De Florio e Elena Freda Piredda – è un librone di 1.400 pagine pubblicato dal Saggiatore. Il che ha qualcosa di comico perché, in realtà, Dostoevskij odiava scrivere lettere. Quando prendeva in mano la penna e si rivolgeva a qualcuno cedeva sempre al bisogno di lamentare la propria incapacità nello scriverle, profondendosi in scuse per la noia con cui era certo di sopraffare il destinatario. Che dire a sua discolpa? Poco.

     

    In effetti la prosa epistolare dostoevskiana è spesso confusa e ridondante, oppure repentina e telegrafica ma poi improvvisamente paludosa e deragliante nella querimonia. Per capirci: ogni riga di questo epistolario brilla per inadempienza al dovere di comunicare con chiarezza. Ma per fortuna. Perché mentre procediamo nella lettura di ciò che, tradendosi continuamente, prende la forma di un romanzo di lettere a se stesso con l’alibi di un destinatario, affiora un sospetto: Dostoevskij era il personaggio letterario di se stesso? La risposta è: forse sì. Nel leggere questo sbalorditivo e impudico Dostoevskij epistolare, quel che ci si ritrova presto tra le mani è infatti un romanzo involontario in forma di monologo ininterrotto. A mutare è solo il destinatario postale, mentre a emergere è il profilo di un uomo che, penna in mano, si getta a capofitto dentro di sé con terribile spericolatezza. Un uomo che non solo è disposto ad accettare, ma cerca, cerca disperatamente (“patologicamente”, verrebbe da dire, e non casualmente) il martirio in prima persona, un uomo che si offre in sacrificio per farsi banco di prova, cavia del proprio laboratorio. A chi scriveva, quindi, Dostoevskij? Ai fantasmi? O sempre e solo a se stesso?

     

    Questo epistolario non chiarisce l’opera. Di più: la dilata, la prosegue e la compie. Questo epistolario è – in un certo senso – l’Opera.“I protagonisti di Dostoevskij non vogliono rapporti con la vita reale, la rifuggono”, scriveva Stefan Zweig. Vero. Perfino loro malgrado. Come lo stesso Dostoevskij, che fugge dalla Russia per evitare la prigione per debiti e che quella Russia continuerà a cercare, idealizzandola, reinventandola, investendola di significati messianici. A Dresda si getta in strada, febbrilmente, in cerca di circoli dove leggere i giornali russi. La politica della madrepatria lo tormenta. Quando legge la notizia dell’attentato allo zar Alessandro II, quasi precipita in una crisi epilettica e obbliga Anna ad accompagnarlo in ambasciata per avere notizie.

     

    Ecco, le lettere di Dostoesvkij sono così: tutte ribollenti di questo Dostoevskij personaggio di Dostoevskij, crepitanti dell’inquietudine di un uomo che barcolla tra domande e infelicità e trasforma tutto in sconfitta e ogni sconfitta in catastrofe. E l’esistenza in letteratura. Un uomo che non rassegna le dimissioni, ma che incalza la vita. Perché Dostoevskij vuole la verità: la cerca con le forze, fanaticamente coniugate, dell’arte e dell’esplorazione del mistero umano in rapporto a un Senso. Nello squallente tugurio della realtà Dostoevskij trascina l’anima coi denti perché, tra impulsi e freni, tra libertà e necessità, è sicuro che valga la fatica. Che la ricerca non sia vana. La sua è – in tutta evidenza – la ricerca di chi sa che troverà.

     

    Queste lettere, questa soverchia quantità di Dostoevskij che il Saggiatore ci scaraventa addosso, ci regalano oggi un’esperienza umana dinamica e irripetibile, un’identificazione tra autore e corpus che non ha uguali nella storia della letteratura: Dostoevskij è la sua progenie letteraria, la eroga perché la contiene. Dostoevskij è un uomo-confessione, un asceta forzato che vuol superare la realtà, ma altro che realismo! Il cosiddetto realista non se ne fa nulla della realtà se non per trascenderla e accedere a quella “vera”, senza tuttavia smettere di essere uomo della propria epoca – epoca decisiva, che si incammina verso il Novecento mentre le fumano ancora tra le mani le macerie di un arcaismo infinito, e la cruciale ambiguità: la Russia è occidente o oriente?

     

    Sarebbe sufficiente la lettura delle lettere che lo scrittore manda alla moglie da Saxons-les-Bains dopo aver perso alla roulette per comprendere la portata di questa raccolta: Dostoevskj, nell’opera come nella vita, accetta il travaglio dell’essere al mondo, il dilemma tormentoso dell’esserci e del “dichiararsi”. Ma si lancia nel vuoto perché crede nella salvezza. Cerca lo spirito perché crede nell’immortalità dell’anima. E sa che solo con la fede – questa e nessun’altra – l’uomo potrà comprendere il proprio destino sulla Terra.