Foto tratta dalla pagina Facebook di Antonio Moresco

Lettere agli uomini

Simonetta Sciandivasci

Don Chisciotte, gli alberi, i rifiuti, le lacrime che non scendono più, i Balcani, la vita e la morte che s'abbracciano, il futuro, l'ostinazione, il rischio, le fiabe. Conversazione con Antonio Moresco.

Quando uscì “Gli increati”,  il romanzo che chiudeva la sua trilogia sullo stare al mondo, la critica, quasi tutta, s’arrabbiò parecchio. Lungo, eccessivo, pretenzioso: lo scrissero in molti, spesso senza averlo nemmeno letto, e ammettendo di non avere intenzione di farlo.

Con Antonio Moresco molti critici sono stati antipatici, irriguardosi. Altri lo hanno amato e protetto come si fa con certe creature selvagge che sono potenti ma indifese, perché lui è un estraneo e uno straniero, un vinto invincibile, “uno scrittore di una specie che non c’è più, che non c’è ancora”. Ha cominciato tardi, a trent’anni e passa ha capito che gli interessava essere e fare lo scrittore, e ce ne ha messi quasi dieci per farsi accettare, inviando lettere e manoscritti che poi ha raccolto in “Lettere a nessuno”, un epistolario tra i più dolorosi della nostra letteratura, che mostra molti guai dell’editoria ma è soprattutto un libro sulla forza e sull’ostinazione.

È un libro donchisciottesco. E a Don Chisciotte Moresco ha dedicato il suo ultimo lavoro, la sceneggiatura romanzata di un film per il quale, insieme al regista Jonny Costantino, sta cercando un produttore. Per adesso c’è il libro, appena uscito per SEM, in copertina c’è lui con un cappello buffo e il volto serio, e dentro c’è un Don Chisciotte ricoverato in un ospedale psichiatrico, che di notte sogna di parlare con Emily Dickinson, ama una Dulcinea che non è metaforica, simbolica, ma parte attiva e belligerante della storia. Un Chisciotte “scaraventato nel nostro tempo, partecipato e sentito fino all’incarnazione”.

Qualche mese fa, avevo parlato con Moresco per una piccola indagine di questo giornale sull’arte, sulle possibilità nuove che la pandemia ha offerto e quelle che ha reciso. Mi aveva detto che quello che stiamo vivendo non è solamente un passaggio d’epoca, ma un passaggio di specie. Stava scrivendo un libro che è uscito due mesi fa, “Canto degli alberi” (Aboca edizioni), in cui racconta del dialogo che durante il lockdown ha intrattenuto con le piante che incontrava durante le passeggiate notturne a Mantova, dove si era trovato suo malgrado a trascorrere la quarantena.

Ha scritto  che Mantova, la città in cui è nato, è per lei “il luogo del trauma, il più doloroso al mondo”.

A Mantova ho vissuto la prima parte della mia vita, per me la più difficile. Quel trauma non è colpa della città: ha a che fare con la mia infanzia, l’adolescenza e le condizioni del tutto particolari della mia vita personale e familiare. Quando nacqui io, mio padre era appena tornato da sei anni in India, dove era stato in campo di concentramento. Mia mamma era una donna povera, lavorava nella casa di nobili dove era andata, anni prima, in cerca di lavoro, rimanendoci poi per il resto dei suoi giorni e dove crebbi anche io – scoprii dopo che in quella villa era stato girato "Novecento" di Bertolucci. Li ricordo come anni di supplizio e sì, di trauma. Un trauma con cui ho fatto i conti e, per quanto possibile, anche la pace.

(“Gli increati” comincia così: “Sono nato il 30 ottobre del 1947, all’imbrunire, brandello di carne rigettato con furia da un altro corpo, concepito nove mesi prima da un soldato reduce dalla più grande guerra mai combattuta e da sei anni di campo di concentramento, e da una domestica non più giovane, sventrata al momento del parto dalla mia grossa testa infelice”).  

C’è più pace nella sua vita di scrittore, adesso?

Ho cominciato a scrivere molto presto, verso i tredici anni. E fino ai venti non ho fatto altro perché non sapevo fare altro, poi però mi sono fermato, ho buttato tutto, mi sono fatto prendere dalla lotta politica e la parte di me stesso legata alla poesia e alla lettura l’ho amputata, credendola debole. A trent’anni, però, quella parte si è ripresentata a me come la più forte che avevo. E allora ho ripreso a scrivere e non ho mai più deviato. Non è stato un processo di pacificazione ma di ricongiungimento e chiarificazione. I primi libri sono stati per me drammatici, avevo un piede nel Novecento anche se cercavo di spingermi più in là perché ero critico nei confronti delle ultime ideologie letterarie novecentiste. Con “Gli Esordi” credo di aver fatto un passo verso una direzione diversa, che mi ha portato fino a qui.

E dov’è, qui?

Un periodo molto strano e liberamente donchisciottesco: non ho voluto tirare i remi in barca, non ho voluto rigirare intorno alla stessa cosa che sapevo fare e fronteggiare; ho deciso di andare verso qualcosa che mi metta ancora davanti all’invenzione e al rischio. Non ho mai chiuso il mondo in una visione nichilistica o rassicurante, sono rimasto nella dimensione tragica ma aperta dove sono sempre stato e dove non c’è pace ma possibilità. Quando ho scritto “Gli Increati” sono arrivato all’idea della increazione e questo mi ha aiutato a spezzare il cerchio chiuso di creazione e distruzione, bene e male: non ha significato annientarli, ma vedere che si può andare oltre, che non sono una barriera.

Per anni ha temuto di non poter fare lo scrittore e prima ancora di non saperlo fare. Ora è certo del suo ruolo, di aver fatto la scelta giusta?

Avendo cercato una strada mia, ci ho messo molto a trovarla. A lungo sono stato in una zona di inquietudine assoluta, non che adesso io sia tranquillo ma dopo tutti questi anni e libri, mi sembra almeno di non aver usurpato il posto di scrittore. Di questo sono abbastanza sicuro. Però io non so vivere nella sicurezza, quindi ho deciso di rimettermi presto in una zona di rischio, di lavorare su un progetto nuovo, faticosissimo ma per me inevitabile. È quello che ho tentato di fare sempre, con ciascuno dei miei libri: caricarmi addosso un macigno, portarlo da qualche parte. Poi è successo che quel macigno me lo hanno tirato via e mi è sembrato di volare. Ma non ho mai voluto volare troppo a lungo: sono sempre tornato in cerca di nuovi pesi da portare. 

La sua è una scrittura carnale, dove questa fatica s’avverte enormemente, se ne sente lo sforzo fisico. È così davvero?

Diciamo di sì. Non è che io sia privo di idee: nei miei libri ci sono, però non arrivano dalla separatezza del concetto bensì da dentro, dal corpo. Ho cercato sempre una strada, come scrittore, e non l’ho fatto attraverso scorciatoie concettuali o teoriche: ho provato a conquistare il pensiero attraverso la sostanza, la carne e il sangue di cui è fatta la vita. È di certo una conseguenza della mia biografia: non ho avuto l’istruzione superiore, non ho fatto l’università, ho fatto un percorso diverso, ho sperimentato la vita in un modo più ravvicinato, senza la barriera difensiva della cultura. Quando ho cominciato a leggere seriamente, a innamorarmi della letteratura e della poesia, nei libri ho trovato cose che avevo conosciuto prima nella vita. Leggevo Omero nel mio monolocale vicino all’imbocco autostradale, dopo dieci anni catastrofici, e non mi sembrava di leggere un racconto storico e poetico di invenzione letteraria: mi sembrava di aver sperimentato che la vita era quella cosa lì, quella guerra che veniva raccontata e che era la stessa che io avevo visto e conosciuto. Tutto ciò che leggevo non passava dal filtro dell’acquisizione culturale, che in qualche maniera separa le cose da loro stesse, ma mi veniva incontro come qualcosa che avevo conosciuto di persona. Come per Dulcinea, nella mia vita il corpo ha fatto e fa passaggio. La valenza corporea è la trascendenza corporea.

Mi sarei aspettata che il suo Don Chisciotte fosse un libro sul fallimento. Invece m’è parso che lei abbia toccato ancora il tema dell’ostinazione e che lo abbia raccontato senza senso di perdita o di sconfitta. Anzi.

Chisciotte è il mio personaggio preferito. Allarga i possibili, mette realtà, immaginazione e sogno insieme, e poi li moltiplica. È vero: la sua, per me, è la storia di una vittoria; anche se il giudizio del mondo lo fa soccombere, lui compie un gesto che squarcia i possibili e pur apparendo lo sconfitto per eccellenza di tutta la storia della letteratura, non perde. A me interessa la forte inattualità di questa figura rispetto al mondo di adesso: una figura di irriducibile, di inarreso totale in un mondo dove arresi sono quasi tutti.

Mi è parsa anche una storia che dice che la poesia è possibile soprattutto quando la realtà è orrenda.

Sì, anche: quando il mondo è terribile, c’è una strada d’uscita, un modo di rompere lo specchio che consiste non nell’accettare e descrivere il mondo ma nel rinnegarlo dalle fondamenta, in modo da riscriverlo, inventarne uno nuovo. Ciò di cui abbiamo bisogno adesso è proprio quella invenzione lì. Abbiamo bisogno di mettere insieme realtà e sogno, realtà e immaginazione. 

Quando dice sforzo di immaginazione a cosa pensa?

Ho studiato a lungo la fiaba perché contiene l’idea che l’impossibile possa fare irruzione nel possibile, nella vita. È la forza che apparenta Don Chisciotte ai personaggi della fiaba (e infatti è famoso quasi quanto i personaggi di fiaba, è un personaggio letterario conosciuto quanto è conosciuta una Biancaneve, per dire): come loro, è un emblema.

Rifondare attraverso l’immaginazione significa eludere del tutto il dato di realtà?

Nella nostra epoca c’è un' ideologia forte e pervasiva (non è vero che le ideologie sono passate), che prevede una descrizione del mondo che discende dai dati economici e ci convince che tutto, nella nostra vita, dipende da lì, da quelle leggi, come se fossero immutabili e uniche. Così ci viene impedito di pensare qualcosa che fuoriesca da quel recinto. Le catastrofi che stanno succedendo dicono però l’opposto. La vita ha una forza che viene da un sacco di altre parti, biologiche, sentimentali, creative: dobbiamo metterle in campo tutte.

Non teme di sbagliarsi?

Certo. Ed è anche per questo che non sono portato ad arrendermi. La prospettiva che veniamo educati ad avere mi ha suscitato forze per cercare di superarla, combattere e uscire da questo vicolo.  È il mio aspetto donchisciottesco.

Ma in questo vicolo non ci siamo arrivati anche perché lo desideravamo? In fondo, non facciamo altro da decenni: perseguiamo il nostro desiderio, lo pensiamo come un diritto. 

Alla fine del mio libro “Il Grido”, c’è un simposio platonico che avviene in un pisciatoio sotto terra e c'è Freud che parla della pulsione di morte che spinge l’uomo ad andare verso l’inanimato, cui si contrappone l’eros, la pulsione di vita. Viviamo senza'altro un tempo che ha una forte pulsione di morte. Non parto dai concetti e quindi le cose le capisco sempre dopo, forse in ritardo, però il fatto che nei miei piccoli libri ci sia sempre stata la compresenza di vivi e morti che si combattono e abbracciano, credo sia dovuto a questo: ho intercettato che la nostra è un’epoca dominata dall' istinto di morte e ho fatto di tutto per contrastarlo. All’inizio della mia vita di scrittore sono stato duramente attaccato come pericoloso vitalista e non credo fosse un’accusa giusta perché il vitalismo implica l'elaborazione di una ideologia sulla vita, e io non l'ho mai fatto, però la vitalità mi appartiene e non riesco a mettermi il cuore in pace, non penso che siamo finiti, se non lo vogliamo. Però il mostro che abbiamo difronte mi appare chiaro nella sua enormità. È davvero colossale e questo mi riempie di sgomento da una parte, dall’altro mi dà la forza di combattere.

Si fida degli esseri umani?

Ho fatto moltissimi lavori, ho fatto l’operaio e il facchino, e ho conosciuto le persone più disperate, incantevoli, malvagie. Non so dare un giudizio generale sull’uomo però so che, a guardarle da vicino, le persone si rivelano sorprendenti. Ho sempre in mente Dostoevskij, che quando raccontava di essere stato in Siberia in un campo per quattro anni e di aver lì convissuto con assassini e ladri, alla fine diceva: ho conosciuto gli uomini migliori di Russia. Accidenti. Non ci rendiamo conto che chi commette il male, lo ha anche sperimentato per noi, al posto nostro. Ho un’idea mossa della vita e degli uomini, non riesco a chiudere nè l'una nè gli altri in una definizione, ma di certo al male ci voglio andare vicino: è il solo modo di andare vicino alla vita. Tutte le volte che l'ho fatto mi sono accorto che anche ciò che sembra invincibile non è invincibile. Come amante di fiaba so che perfino nelle storie più tremende ci sono dei colpi di scena che possono ribaltare tutto. Ne era convinto anche Leopardi, che non era un ottimista.

Rido perché mi ha ricordato quella sua lettera a Maria Corti, un delle tante che le scrisse, riportata in "Lettere a nessuno", in cui si scusa con lei per averle recapitato un'intemerata contro "i leopardisti italiani" che di Leopardi ci avevano capito poco: si diceva sicuro di aver fatto una gaffe. 

Non mi aveva mai risposto! Una volta andai a trovarla e cercai di vestirmi al meglio che potevo, ma avevo qualche buco qua e là sulla camicia e sulle scarpe: cercai di camuffarli ma lei li notò immediatamente, ricordo ancora il suo sguardo atterrito. Anni dopo venne a una presentazione che feci a Milano e disse a Carla Benedetti che le facevo paura. E io che pensavo di essere una persona mite! Per lei venivo fuori da viscere della vita così aliene che le risultavo inquietante. 

Di odiare le capita?

Le rispondo con chiarezza. Credo di esser capace di combattere, ma non di odiare. Ho sentimenti antagonistici che mi portano a non scendere a patti e a essere irriducibile ma mi sembra di vedere nelle persone sempre delle cose che mi inteneriscono.

Per amore ha accettato compromessi?

Qualcosa sì ma poco, molto poco. Ho un atteggiamento simile a quello del ragazzo di sedici anni dell’Ottocento tedesco. Ho una psicologia simile, la stessa radicalità e quindi non so essere strumentale in nessuna relazione con l'altro, amorosa o amicale che sia. 

A proposito di amici. Ho letto che ha ideato un cast possibile per il film dal Don Chiosciotte. C'è anche una parte per il suo caro Walter Siti. Ha accettato? 

Eccome. Anche perché gli ho detto che, se riusciremo a farlo, sarà un film pieno di persone bizzarre e qualche pornostar. E sa com'è Siti, l'idea lo diverte già moltissimo. 

Ha mai avuto paura che l’amore la distraesse?

I miei libri sono pieni d’amore, come potrebbe? Non ho paura dell’amore in assoluto, perché non ho paura della morte.

Da dove arriva questo suo coraggio?

Non direi che sono coraggioso. Mi rendo conto che temere la morte significherebbe e implicherebbe temere la vita. Noto sempre di più che più le persone hanno una vita insoddisfacente e più hanno paura di morire. È strano, dovrebbe essere il contrario, e invece chi conduce una vita misera ha una paura incredibile di perderla. Io non ho questo timore forse perché nella prima parte della mia vita non sono caduto da uno stato idilliaco e felice dell’infanzia a uno più infelice. Appena venuto al mondo, sono subito passato attraverso la morte e l’inferno, li ho già conosciuti, non mi spaventano più. E nemmeno mi spaventa non essere uno scrittore conosciuto, letto, riconosciuto universalmente: sottoterra ci sono già stato. Credo che quel poco di libertà che riusciamo ad avere la conquistiamo quando non temiamo la morte. Se temi la morte, c'è poco da fare: sei uno schiavo.

Visto che ha citato i suoi libri pieni d'amore, mi tolga una curiosità su "Gli incendiati", che è una storia d'amore. Perché è ambientato quasi tutto nei Balcani?

I protagonisti di quel romanzo attraversano quella zona perché nel libro c'erano morti che combattevano contro i vivi: i Balcani sono un posto pieno di fantasmi, dove si sono combattute guerre orrende e vergognose, che lì si sentono ancora, anche se noi fingiamo che non sia così, anche se l'Europa non ci ha mai fatto davvero i conti. Non c’era posto più indicato per la mia storia. Il caso ha voluto che, non molto tempo dopo aver scritto il libro, ho fatto un viaggio a piedi da Trieste a Sarajevo, e ho attraversato quei posti. Ho visto le foibe, i palazzi trivellati, le montagne ancora piene di mine (ce ne sono circa un milione, ancora inesplose). Ricordo che, lungo il tragitto, avevo incontrato un ragazzo che m'era parso spaventoso: ruvido, grezzo, torturava il suo cane continuamente. Mi avevano poi raccontato che, quando era bambino, avevano fucilato tutta la sua famiglia e lui era riuscito a sopravvivere perché era rimasto coperto dai cadaveri, e poi era scappato, aveva camminato per i boschi per giorni, fino ad arrivare in Austria, dove lo avevano medicato, ma i suoi traumi erano insuperabili. Ricordo anche che tutte le persone che ho incontrato in quel viaggio mi avevano detto quanto repentino fosse stato il cambiamento delle relazioni. Da un giorno all'altro, amici e fratelli si erano ritrovati nemici. Ho il timore che quella vicenda sia stata la prova generale di qualcosa che potrebbe accadere su scala mondiale. Anche per questo, forse, con quella tragedia, che è ancora sottotraccia e ha lasciato ferite mai sanate, dovremmo tutti fare i conti.

Lei piange?

No.

Mai?

Ho pianto moltissimo da bambino, adesso non ci riesco più. Piango dentro. A volte mi salgono le lacrime agli occhi, restano lì dentro, fin sul bordo, anche un’ora, ma poi non escono, non cadono giù.

 

 

 

 

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.