Resisto, quindi racconto

Marco Archetti

Il teatro accetta la sfida del lockdown, che non è tempo sospeso ma tempo teso, nuovo. “Interrogarci sul presente è il punto di partenza, non di arrivo”. La lezione di Fausto Cabra

Uno smartphone, dodici attori (ognuno rinchiuso a casa propria), una marea di problemi, e un titolo – “Home theater, Le voci da dentro”. Era marzo 2020, cioè qualche mese fa, ma prima bisogna fare marcia indietro e andare a febbraio 2015, quando incontrai per la prima volta Fausto Cabra, data che non interessa a nessuno, non fosse che, a citarla oggi, il quadro si tinge di colori pastello, i contorni si appannano come nelle telenovelas di mia nonna quando la protagonista sognava. Di colpo riaffiora un’epoca incredibile, cenozoica, i giardini della preesistenza di Battiato, quando il lockdown non era nemmeno un’ipotesi, quelli che giravano con l’Amuchina erano considerati degli psicotici, e l’idea che gli amanti della corsetta potessero essere dei terroristi era questione da ultimo cassetto delle eventualità lunari.

 

Ma torniamo a quel febbraio che ci interessa solo relativamente: ci trovavamo entrambi al Teatro Piccolo di Milano, Fausto tra gli attori e io tra il pubblico dello spettacolo “Lehman Trilogy”, scritto da Stefano Massini per la regia di Luca Ronconi. Anche quella sera, sul palco, stava accadendo quel che accade quando la magia teatrale prende corpo: il sogno, il circo, la letteratura, la musica, il silenzio, il vuoto, la densità, l’assenza, la presenza, la consistenza, l’effimero, il pulviscolo, l’eterno, il fracasso, insomma, caos.

 

Clinamen e fantasmi d’oro danzavano in tutù davanti ai miei occhi, facevano scomparire il tempo dai polsi e i pensieri dalla testa, e mi entravano in circolo, veleggiavano nelle vene, mi accendevano il sangue, mi raggiungevano perfino i malleoli e mi tenevano avvinto a ogni singolo respiro degli attori, alle parole-locomotiva di quel copione che marciava con gloriosa forza unanime, un copione di cui già sapevo tutto perché l’avevo letto, riletto, studiato, chiosato, sottolineato, puntoesclamativizzato sui margini bianchi dell’edizione Einaudi (la prima), un testo sghembo e rettilineo, suadente e corpulento, farfallino ed elefantiaco, che volava dalla finestra e rientrava dalla porta, un va e vieni di frasi, strofe, parole viventi e defunti evocati dai “c’era una volta” di quella parata che sembrava una cantata, una ballata, una filastrocca, un delirio, un girotondo, un fuoco d’artificio, un inno, un’esplosione, una storia della buonanotte, una storia per star svegli, un filo teso, un filo rotto, un filo infinito.

 

Tutta la sala era immersa nell’incantesimo di quell’impalpabile sartoria poetica, e dico poetica nel senso meno lezioso della parola – dico poetica come potrei dire carnale – e infatti avevano luogo l’Alto, il Mirabile e l’Irripetibile con tutte le maiuscole. Tutti eravamo seduti ma in volo e in piena traiettoria chagalliana, un’escursione fuori dalla gravità, mai avvertito il pubblico così fortemente durante uno spettacolo, i miei battiti precipitavano ed esultavano in altri battiti, ed eravamo lo stesso droplet (appunto, epoca cenozoica), lo stesso pozzo e lo stesso pinnacolo, lo stesso secchio di miele e lo stesso trampolino, non saprei come spiegare altrimenti – ma mi chiedo: sarà stata la paradisiaca sostanza ronconiana che si era stabilita in quella sala e ci regalava quell’aerosostentazione?

 

 

Sta di fatto che eravamo tutti, in tutta evidenza, aerosostentati. Tra gli attori sul palco – che sembravano rincorrersi in una sinfonia di misure e straripamenti, tutto controllato e calcolato, matematica che bacia in bocca la poesia – per tutto il secondo tempo troneggiava Fausto, che si impossessava del personaggio di Bobby, l’ultimo rampollo Lehman, lo prendeva per mano e lo portava, passo dopo passo e con efferata precisione, al parossismo, fino a quell’indescrivibile, esplosivo sabba finale con se stesso.

 

Io e Fausto ci siamo conosciuti qualche giorno dopo, presentati da un’amica comune, durante i loro sopralluoghi per uno spettacolo prodotto dal Centro teatrale bresciano di cui lui era ideatore e regista, dal titolo “Autoritratti in viaggio”, di lì a poco in scena in città tra le stanze del palazzo Martinengo Colleoni, vecchia sede del Tribunale – dall’anno successivo il piano nobile sarebbe stato occupato dal Ma.Co.f., Centro della fotografia italiana, voluto da Gianni Berengo Gardin. Lo sommersi di complimenti e gli regalai un libro.

 

Esauriti i convenevoli, mi diedi all’occupazione che preferisco: osservare. Gli trotterellavo a distanza tale da garantirmi un mezzo campo lungo, lanciavo occhiate alate al palazzo, a lui e alla mia amica, e intanto mi dicevo: ma guarda un po’ questo tizio, che passo cauto e misuratamente strampalato… Guarda come pencola e come guarda, come dubita e come dispone, metà imperatore e metà suddito… Ha confusissime idee chiare e una faccia danbrownesca per cui potrebbe essere angelico e demoniaco (io quando guardo un attore non guardo solo lui ma la terza persona plurale che nasconde, prima era un vizio ora lo faccio anche per lavoro, è più forte di me, un attore o un’attrice sono una faccia a botola, hanno il trovarobato negli occhi, il carnevale negli zigomi, sono un mazzo di carte fisiognomico).

 

Poi andammo a bere qualcosa. “‘Per Bobby Lehman – cominciò a raccontare – forse non sei giusto’, mi diceva sempre Ronconi. ‘Ma sei l’unico che può farlo’. E aveva ragione: io sono di Ghedi, provincia di Brescia, retaggio agricolo, non ho borghesia nel sangue e nemmeno il rigore ebraico che sarebbe servito”. Ma a quanto pare la storia non si fa coi sarebbe, e nemmeno con le lauree. “Stavo per prenderne una in Ingegneria aerospaziale, mi mancavano tre esami”. Poi il destino fa volare le carte, impone, dispone, fa e disfa le storie degli uomini come bagagli. E va a finire che uno si presenta a un provino al Piccolo.

 

 

“Ronconi è stato fondamentale. Mi ha preso il cervello e me l’ha rivoltato come un calzino. Mi ha insegnato il gusto per la complessità. E che anche la profondità è leggera. E che non è scontata nemmeno la formulazione di una frase. Ronconi è stato un padre”. Ma come in Turgenev, come nella vita, i padri esistono per essere contestati – la fase abbattimento statue del nostro ottuso scontento giovanile. “Gli dissi che per me era un maestro con la m minuscola. Tre anni dopo rifiutai un suo spettacolo. Dal 2010 abbiamo ripreso i rapporti ed è andata sempre meglio. Tutti gli attori scelti per Lehman sono stati pezzi della sua vita. Ci ripeteva: gli attori si salvano solo insieme”.

 

Poi, dopo una pausa, buttò lì: “L’opera è il momento passivo della cultura? Non credo mi stia bene”. E prima di salutarci: “Me lo scrivi un monologo per Autoritratti?”. Dopo quell’esperienza avremmo messo in scena, grazie alla complicità del Centro teatrale bresciano, teatro tornato vitalissimo grazie a Gian Mario Bandera che lo dirige con saggia cognizione e sprezzo del pericolo, spettacoli complessi e quasi futuristici, e un classico teatralmente inaffrontabile come “La storia” di Elsa Morante (da novembre al teatro Parenti di Milano), fino al lockdown.

 

In quei giorni sapevo che il direttore l’aveva contattato chiedendogli di coinvolgere gli attori con cui aveva lavorato negli ultimi anni per riproporre alcuni testi tratti dai nostri spettacoli, e sapevo che Fausto ci stava rimuginando su. Come sempre, ne sarebbe uscita una cosa che sulle prime avrei giudicato folle e insostenibile, poi, disboscando insieme a lui l’inutile, sempre più a fuoco, finché avremmo trovato la quadratura. Così un giorno lo chiamo ma non mi risponde. Il telefono mi suona due ore dopo. “Scusa, ma ero chiuso nell’armadio di casa per fare una prova luci e video”.

 

Il discorso con cui mi travolge – a discapito delle premesse – è, come sempre, un discorso che fa a me per chiarirlo a se stesso. Ed è molto lucido. A differenza di tutto quanto in quei giorni si vedeva in giro tra social e YouTube, era un progetto animato da un coraggio vero, pieno di rischio utile e di ostinato rifiuto della mediocrità. “Mi hanno chiesto di immaginare un progetto di ventitré puntate, ma io non vorrei fare letture, che senso ha? Certo, sono cambiati tutti i fattori del nostro lavoro, lo so bene… Ma un attore che si mette davanti a una telecamera e legge è al minimo sindacale di se stesso. Non possiamo fare una cosa così! Cosa voglio comunicare davvero? L’atto di resistenza. Che, al netto di ogni vanvera, per noi artisti è: continuare a fare gli artisti. Interrogarci sulla situazione dev’essere il punto di partenza, e non di arrivo. Voglio donare la mia fatica, il mio rischio.

 

Inventiamoci dunque un ibrido, che al momento non so ancora cosa sarà, ma sarà come la situazione che stiamo vivendo. Non possiamo frignare e continuare a enumerare quello che ci manca, no? Siamo chiusi in casa, ok, ma se si riducono gli elementi si riduce il gioco? Questo dobbiamo dare al pubblico: siamo ancora vivi! Siamo artisti e siamo ancora in grado di giocare. E siccome ogni limite nasconde qualcosa, io credo che in questo lavoro i limiti non li nasconderemo ma li faremo vedere tutti, e intanto apriremo spazi inimmaginabili. Siamo da soli, ognuno nelle proprie stanze, ma possiamo comunicare.

 

Costruirò una regia senza stacchi; non siamo al cinema. E ogni episodio sarà un problema drammaturgico, teatrale e audio-video: ventitré problemi e ventitré soluzioni, tutte diverse. Dopotutto stiamo comunque facendo teatro. Ci saranno unità di luogo, di tempo e di spazio. Però il video funziona sulle variazioni, e allora troverò il modo per renderlo sostenibile anche al pubblico di una serie tv. Ma niente slealtà: metterò il limite sotto gli occhi del pubblico, così come il suo superamento. Il teatro, in fondo, è questo da quando esiste. Dobbiamo darci senso da soli, basta sentirci vittime”.

 

 

Una lezione inestimabile. In una sola telefonata. E alla fine, scommessa vinta: ventitré puntate di una web serie visibile sul sito del teatro, annunciate da Fausto che si inventava ventitré introduzioni riciclandosi in ruoli comici o tragici, parlando al proprio doppio, vestendosi da Rambo casalingo per un immaginario videogame di sopravvivenza, ricreando nell’interno di un armadio la prua di una nave veleggiante su un mare sconfinato, smanettando con sfondi, app video e audio e giochi di prospettive, uscendo da un’inquadratura per cadere in un’altra che ne svelava il trucco.

 

E presentando ogni puntata col fatidico ritornello: “Ah, dimenticavo: questo non è teatro. Il teatro è tutta un’altra cosa”. Agli attori era chiesta la medesima equestre sventatezza: allestire le scene in casa propria, tendere un filo dalla libreria alla portafinestra e far l’equilibrista, interpretare personaggi medievali agendo nella bolgia di emoticon di una grafica da videochat, trasformare un groviglio di lenzuola nel campo di sterminio raccontato da Primo Levi, sfruttare l’inimmaginabile per riconfigurarlo drammaturgicamente.

 

E se il teatro è comunità, ecco che abbiamo fatto comunità senza comunità, giocando a nascondino con noi stessi e le mille paure e inefficienze, concedendoci un po’ di retorica solo per sfidarla subito dopo, compromettendola e snidandola, cercando – come mi avrebbe detto Fausto pochi giorni dopo – “di non vivere il tempo del lockdown come il tempo di un incidente, ma prendendo spunto dalla Formula Uno: la vittoria la si costruisce nella sosta ai box”. L’esigenza primaria era essere contemporanei al presente, non mettendoci di spalle ma affrontando le nostre difficoltà e facendo di tutto, noi per primi, perché quello non fosse un “tempo sospeso” ma un tempo teso, nuovo.

 

Quello spirito che ho imparato da Fausto e dai suoi attori sopravvive anche oggi: proprio in questi giorni, tra smartphone (per fortuna che esiste), riunioni lampo su piattaforme digitali e risorse impensabili fino a pochi anni fa, siamo in due posti lontanissimi eppure stiamo lavorando, scrivendo e mettendo a punto lo spettacolo dell’anno prossimo, che accompagnerà il ritorno a Brescia della Vittoria Alata, statua simbolo della città, che alla città fu donata da Vespasiano, e nei secoli interrata, smarrita e ritrovata, ora finalmente restaurata.

 

Non sarà un ritorno come un altro, ma il simbolo di una rinascita: quella di una città che ogni volta ha imparato da capo a soffrire. Nemmeno lo spettacolo con cui lo racconteremo sarà uno spettacolo come un altro. Ci ritroveremo tutti, forgiati da un tempo che non ci siamo lasciati scappare, perché – come diceva Ronconi – gli attori si salvano solo insieme. E anche chi osserva, pensa, gioca e fa il mestiere più bello e forte del mondo: raccontare.

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