Verga o Pirandello?

Spazio o tempo, occhio o orecchio: l'eterna lotta per la supremazia nella prosa

La scrittura di chi ci vede poco ma aguzza le orecchie

Antonio Gurrado

Anche sulla pagina spazio e tempo possono confluire, ma quale dei sensi deve avere la precedenza? Lo "stile di cose" di Verga e lo "stile di parole" di Pirandello

Al Festival Letteratura di Mantova c’è stata un’ora di incontro fra Sandro Veronesi, romanziere architetto, e Chiara Valerio, romanziera matematica, che hanno discusso fra l’altro su come sia possibile scrivere narrativa se non si è scienziati. Veronesi, più drastico, ha buttato lì che gli è incomprensibile come facciano a esserci scrittori che non siano architetti, poiché la narrativa e la prosa in generale sono strumenti che consentono di disporre cose nello spazio. Esempio concreto: nel momento in cui descrivo un ambiente – anche in condizioni estreme come Xavier De Maistre nel “Viaggio intorno alla mia stanza” o Manzoni di fronte al macello della vigna di Renzo dopo la peste, che lo costringe a virtuosismi botanici – la pagina di prosa funziona solo se riesce a creare nella testa di chi legge esattamente la mappa che l’autore aveva in mente; così come l’architettura e l’ingegneria funzionano solo se traducono in realtà vivibile gli spazi che esistevano nel progetto.

 

Chiara Valerio ha arguito che la narrativa potrebbe tuttavia venire considerata strumento per disporre le cose nel tempo, anziché nello spazio. Ciò sottrarrebbe almeno quel settore di prosa all’architettura restituendola alla regina delle scienze, l’aritmetica, che seguendo la distinzione scolastica di Kant si fonda sulla forma pura di tempo (conteggio, successione, ritmo) mentre la geometria, base dell’architettura, si fonda sulla forma pura di spazio (dimensione, collocazione, distanza). Veronesi ha brillantemente parato il colpo ricordando che nella relatività ristretta spazio e tempo convergono, anzi sono la stessa cosa. Più modestamente, nella narrativa e nella prosa, questa convergenza si attua mirabilmente nella lista: i cui elementi vengono ordinati secondo una gerarchia dall’alto in basso che è anche una gerarchia di prima e dopo.

 

Non a caso “Il colibrì” è un romanzo il cui miglior capitolo a mio avviso è la lista commentata degli Urania mancanti dalla maniacale collezione del padre del protagonista. Un’ora è troppo poco e inoltre, a voler parlare solo di questo tema in fin dei conti specialistico, c’era il rischio che il pubblico delle due del pomeriggio s’imbizzarrisse; ragion per cui il discorso si è spostato su altro. Peccato perché, sfondando i confini del festival e occupando il palco fino a non trovare soluzione definitiva, questo dialogo mantovano avrebbe potuto dire molto ancora su come si debba fare prosa. Una volta accettato che anche sulla pagina spazio e tempo possono confluire, il problema avrebbe dovuto spostarsi su quale dei sensi debba avere la precedenza nella scrittura e nella lettura.

 

La supremazia degli occhi è solo apparente, nonché recente; fino a non molti secoli fa si leggeva ancora biascicando fra sé e sé, per non parlare delle serate di lettura collettiva, col capofamiglia che leggeva e gli altri intenti ad ascoltare, nelle case degli istruiti quando ancora si viveva in un Ottocento senza Netflix. Le orecchie, neglette fino a poco fa, iniziano oggi a prendersi la rivincita coi gruppi di lettura e soprattutto con gli audiolibri. Torniamo allora all’esempio della lista. La disposizione spaziotemporale dei suoi elementi, per risultare in bella prosa, deve essere determinata in base a un efficace effetto visivo (spaziature, a capo, collocazione strategica di eventuali voci tremendamente lunghe o fulmineamente brevi) o in base a un effetto uditivo (eufonia, metrica intrinseca, disposizione degli accenti)?

 

È chiaro che quasi mai questi due criteri collimeranno nel prodotto. La contrapposizione fra prosa visiva e prosa uditiva è, in sostanza, l’identica contrapposizione che Pirandello rinveniva fra lo “stile di cose” di Verga e il proprio “stile di parole”. Pur non essendo architetto, Verga è un grande creatore di ambienti e usa le parole per arredarli nella mente del lettore, richiamandogli la dura presenza degli oggetti (tutti noi abbiamo visto, leggendolo, un carico di lupini o il pesco che s’innesta al melograno). Pirandello invece sussurra un discorso all’orecchio del lettore, talora puro ritmo come nel ragtime finale di “Uno, nessuno e centomila”: “Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo”. A voler essere cinici, più che di architetti o scienziati bisognerebbe discutere se la scrittura debba essere appannaggio di chi ci sente male ma è una lince o di chi ci vede poco ma aguzza le orecchie. Omero, Joyce e Borges fanno propendere per la seconda ipotesi.

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