Intervista

In memoria di Rossana Rossanda (1924-2020)

Ritanna Armeni ricorda la donna severa ma anche materna che le fu maestra negli anni del manifesto

Annalena Benini

Rossanda fu l'incontro fondamentale per le giovani donne del manifesto degli anni Settanta. E Ritanna Armeni, che era tra quelle ragazze, ripercorre il terrore, la soggezione e insieme l'affetto provato per quella giornalista che "per noi era come una dea"

“Io Rossana la temevo molto, e la temo ancora, ho sempre avuto grande soggezione di lei, questa soggezione dura ancora, e adesso, nel momento della sua morte, mi è più chiaro: le devo moltissimo, devo dirle grazie e dentro di me glielo ho detto: ha abitato come una dea gli anni fondamentali della mia vita, anche terrorizzandomi, e io tutta la mia vita poi l’ho guardata poi con lo sguardo che lei mi ha fornito, che io ho imparato da lei”.

 

Ritanna Armeni, giornalista, saggista e scrittrice, ha conosciuto Rossana Rossanda nel 1970, al manifesto.

Al manifesto c’erano queste tre dee: Luciana Castellina, Lidia Menapace e Rossana Rossanda. Di tutte e tre, Rossana Rossanda era la più irraggiungibile, lei stava al di sopra di tutte e noi ne avevamo grande paura e ammirazione.

Che cosa fu l’incontro con Rossana Rossanda per voi giovani donne?

Fu un incontro fondamentale, una specie di folgorazione, e fu anche difficile. Ho ancora in mente questa immagine di lei: io ero la ragazza di bottega, incaricata di comprare le scrivanie alla Croce Rossa per la sede del Manifesto che da rivista diventava quotidiano, e di fare il contratto della luce. Ma non mi riuscì, o ci voleva tempo, comunque le lampadine non c’erano ed era il gennaio del 1971. Lei arrivò in riunione avvolta in un mantello nero, con uno chignon biondo e la frezza bianca,  e una candela in mano. Fu un’apparizione. Non mi sgridò perché mancava la luce, trovava quella situazione di clandestinità molto divertente, ma io ero terrorizzata.

Perché avevi tanta soggezione di lei?

Perché ci richiamava sempre a qualcosa di superiore, ed era molto attenta al nostro gruppo di giovani, ci scrutava molto, sentivo il suo giudizio, aveva un fortissimo senso critico. La sua stanza era al quinto piano, l’ultima in fondo a sinistra: io la vedevo passare, la mattina, e controllavo sempre se avesse il rossetto rosso. Se aveva il rossetto, quel rossetto significava inequivocabilmente: tempesta. Perché avevamo sbagliato un pezzo, perché avevamo preso un abbaglio politico, perché avevamo scritto una banalità. E quando stava per prendere la parola in riunione, io sapevo che era il momento in cui tutto quello che avevo pensato fino a quel momento poteva essere ribaltato. Di tutti gli altri in fondo riuscivo a prevedere il movimento del pensiero, di Rossana mai.

Che cosa ricordi in particolare?

Ricordo quando scrisse sul manifesto, durante il sequestro di Aldo Moro, che riconosceva il linguaggio delle Br, e che era come sfogliare, ‘l’album di famiglia’: lì il mio cervello si ribaltò.

(“In verità, chiunque sia stato comunista negli anni cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria”)

Però Rossana Rossanda non fu sempre disposta a mettere in discussione le magnifiche sorti e progressive, e ha preso spesso posizioni molto dure e intransigenti.

Lei è stata sempre molto dura e severa, con se stessa e con gli altri, era molto radicale. Ha anche fatto molti sbagli. Il femminismo, per esempio, lei non l’ha capito subito, e guardava a noi ragazze del ’68 con grande sospetto. Non le piaceva. Lei aveva in mente Rosa Luxemburg, non le nuove femministe.

Era molto tradizionale, e io credo, ma l’ho capito dopo, che lei non voleva che il femminismo diventasse un pretesto per non occuparci delle grandi idee della rivoluzione. Pensava che la liberazione delle donne dovesse arrivare con la liberazione delle classi subalterne. Era davvero, come il titolo del suo libro, una ragazza del secolo scorso, era molto tradizionale.

Forse riguardo al femminismo c’è anche il fatto che lei la libertà per sé l’aveva già conquistata, l’autorevolezza ce l’aveva già, non aveva alcun bisogno di legittimazione. Ho letto nel suo ultimo libro, “Questo corpo che mi abita”, una frase significativa: “Perché dell’essere donna non saprei che dire: lo sono”.

Rossana Rossanda aveva già la libertà quando noi andavamo conquistandocela attraverso la lotta comune, aveva già il riconoscimento degli uomini, aveva il riconoscimento di Togliatti, aveva partecipato ai grandi avvenimenti come quasi unica donna, aveva autorevolezza, tutto questo era esaltante, e io non l’ho mai mai mai sentita lamentarsi perché qualcosa a lei era stata rifiutata in quanto donna, o perché aveva sofferto in quanto donna. Non so se perché davvero non si era accorta, o perché era troppo orgogliosa per ammetterlo, ma credo che avesse molta paura che le donne assumessero una posizione di vittimismo che lei non sopportava e a cui non avrebbe mai ceduto nemmeno in privato.

Com’era la sua sfera privata?

Era una donna molto femminile, molto elegante, amava i fiori e le piante, i gatti, amava cucinare, mi ha insegnato a fare il risotto e il montblanc. Il suo terrazzo era sempre fiorito. Aveva una sfera privata ricchissima, in cui si faceva tantissime domande, ragionava sul dolore, voleva andare a fondo. Il suo lato femminile, io credo, non è stato toccato dalla politica.

Hai detto che era in fondo molto tradizionale, lo era anche nei comportamenti?

Quando mi sono sposata, nel 1975, mi ha fatto trovare un pacchettino sulla scrivania, e dentro c’era una spilla molto carina, con pietre bianche e verdi. Sono andata a ringraziarla e lei mi ha detto che aveva pensato di regalarmi un vassoio d’argento, ma che non le era sembrato il caso. In effetti, un vassoio d’argento a una ventenne femminista negli anni Settanta! Ma poi io portavo questa spilla con grande disinvoltura, sui miei golfacci, dando per scontato che fosse di bigiotteria, per me non esistevano i gioielli, e lei deve averlo capito perché un giorno timidamente mi disse: nella mia famiglia si usa regalare questa spilla alle giovani spose, mia zia l’ha data a me e io la regalo a te. Quella spilla naturalmente la conservo ancora e ogni volta che la guardo penso che non avevo capito niente. E penso anche che, lei che non era affatto maternalista con noi ragazze del manifesto, in quel momento si è trasformata in una madre per me.

Pochi anni fa Rossana Rossanda ha scritto qualcosa che assomigliava già a un addio: “Il giorno che il corpo manderà a dirmi: ‘Senti, sono stufo, adesso basta’, spero che mi lascerà il tempo di dirgli: ‘D’accordo, e grazie, mi sono molto divertita’”. Come possiamo intendere il divertimento per Rossana Rossanda?

Di certo non nel senso che al divertimento diamo tutti, lei era così severa. Anzi io credo di essermi staccata da lei, nell’ultimo decennio, perché mi seccava il fatto di temere ancora il suo giudizio. Un po’ lo temevo e un po’ mi seccava, come succede con le madri del resto. Ma lei si è molto divertita nel senso che ha partecipato a tutto, che si è interrogata su tutto e ha dato risposte a tutto, anche se a volte quelle risposte erano sbagliate. E’ stata ciò che ha voluto, ha vissuto sempre in armonia con se stessa. E adesso non so dirti se si divertirebbe con le nuove questioni del femminismo: non so se le sue categorie possono funzionare anche oggi, pur con tutto il suo bagaglio culturale. La mia Rossanda, per me, è sempre la Rossanda di quegli anni formidabili.

Che cos’è stato dunque invecchiare, per lei che aveva tutta quella forza?

Voleva sapere tutto, voleva capire, ed è stata lucida fino alla fine. Ha avuto un rapporto molto intenso anche con la vecchiaia e con il suo corpo. Quando è morta Rina Gagliardi, di tumore nel 2010, Rossana era già anziana. Io sono andata a Parigi e le ho telefonato per dirle com’era andata, lei mi ha detto: “Eh no, io voglio sapere tutto”, e mi ha convocato in un bar. Io sono scattata sull’attenti e sono andata, e mi ha fatto domande precisissime: voleva affrontare il dolore e la morte fino in fondo. Ed è stata sempre, in tutto, tradizionale ma molto anticonformista.

Quando dici in tutto ti riferisci proprio a tutto?

Una volta una di noi, una mia amica del manifesto, ebbe un flirt di un pomeriggio, un po’ come si usava allora, con un personaggio molto importante, il capo del movimento di liberazione africano. Non ricordo assolutamente chi fosse. Comunque dopo un anno questo signore venne ucciso, e la mia amica in redazione era piuttosto scossa e addolorata. Rossanda se ne accorse, si accorgeva di tutto, e convocò me, mi chiese che cosa fosse successo. Io, vergognandomi moltissimo, le raccontai la verità, del flirt e del capo del movimento di liberazione africano. Mi aspettavo una reprimenda di tipo morale: ma insomma, voi ragazze, eccetera. Invece lei non mosse un muscolo, mi chiese solo: ma quando è successo? Io le dissi quando era successo. E lei: “Oddio, ma era ospite del Partito. La prossima volta avvertitemi, perché questo è un fatto politico”.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.