Bolscevichi liberali

Piero Gobetti andrebbe letto anche quando scrisse che Lenin e Trotsky esaltavano il liberalismo

Giuseppe Bedeschi

Nella concezione politica gobettiana la rivoluzione bolscevica russa costituiva una cartina di tornasole non solo all’interno dello schieramento liberale, ma anche all’interno di quello socialista

Che senso ha riproporre oggi il pensiero di Piero Gobetti, la sua interpretazione del fascismo come “autobiografia della nazione”, la sua rivendicazione di una “rivoluzione liberale”? Me lo sono chiesto leggendo sull’ultimo numero della rivista Paradoxa (dedicato al tema “Essere (o non essere) italiani”, a cura di Gianfranco Pasquino) i saggi di Paolo Bagnoli (“Piero Gobetti: l’autobiografia della nazione”) e (condotto con maggiore cautela critica) di Pier Giorgio Zunino (“Appunti sul tema ‘il carattere degli italiani’”).

 

C’è un aspetto del pensiero di Gobetti che non emerge in questi saggi, e che invece è centrale per una valutazione critica dello scrittore torinese: il suo giudizio sulla rivoluzione bolscevica in Russia, da lui giudicata una rivoluzione “liberale”. Egli scriveva infatti: “L’opera di Lenin e di Trotsky rappresenta questo. In fondo è la negazione del socialismo e un’affermazione e un’esaltazione di liberalismo. La storia dovrà riconoscerlo. E’ morto lo zarismo e la mentalità zarista. La Russia si eleva al livello della civiltà dei popoli occidentali”. Erano affermazioni singolari, queste di Gobetti, e non soltanto alla luce del senno del poi. Perché esse lasciavano intravvedere una concezione del liberalismo affatto estranea alla tradizione del pensiero liberale occidentale. Questo pensiero, infatti, con la parola ‘liberalismo’ ha sempre inteso, in primo luogo ed essenzialmente, la teoria e la prassi della protezione giuridica, attraverso lo stato costituzionale, delle libertà individuali. Questa accezione del liberalismo non sembrava invece trovare posto nel pensiero di Gobetti.

  

Questo aspetto della concezione politica gobettiana è, ovviamente, di grandissima importanza, poiché l’atteggiamento verso la rivoluzione bolscevica russa costituiva una cartina di tornasole non solo all’interno dello schieramento liberale, ma anche all’interno di quello socialista. Si deve tenere presente, infatti, che i socialisti democratici, sia in Italia (Turati), sia in Germania (Kautsky), denunciavano la costruzione in Russia, a opera dei bolscevichi, di uno stato integralmente totalitario, fondato sul controllo capillare esercitato dalla polizia politica al servizio della fazione al potere e sul terrorismo di massa. Kautsky aveva affermato che il regime bolscevico era, sotto l’aspetto politico, una dittatura burocratica, e sotto l’aspetto economico, un capitalismo di stato. Una “nuova classe di funzionari” (una definizione, questa di Kautsky, destinata a grandi sviluppi futuri) si era impadronita, in Russia, del potere sia politico sia economico, generando la più grande servitù sociale che si fosse mai vista nella stessa Russia. Altro che socialismo: si trattava, in realtà, del dispotismo più oppressivo che la Russia avesse mai conosciuto.

 

Gobetti conosceva assai bene questa letteratura socialdemocratica, ma si dimostrava del tutto insensibile alle sue critiche. Anzi, occupandosi sul Resto del carlino, il 5 aprile 1921, della dura polemica fra Trotsky e Kautsky a proposito del saggio di quest’ultimo su Terrorismo e comunismo (1919), egli non aveva alcuna esitazione a schierarsi dalla parte di Trotsky. “Il quale – egli diceva – afferma per primo, in Russia, una visione liberale della storia”. Poco importava che i bolscevichi imponessero i loro programmi con la violenza e il terrore, perché, diceva Gobetti, “la violenza si può usare quando vi sia persona capace di esercitarla, e gli altri la tollerino. E questo esercitarla e questo tollerarla sono l’espressione esterna di un fatto interiore che ha la sua radice negli spiriti. In Russia il fatto che spiega è precisamente l’adesione degli animi al governo del Soviet”.

 

Sono affermazioni, queste, che oggi suonano, a dir poco, singolari, e, in ogni caso, assai poco liberali. Nell’accettazione, e direi quasi nell’esaltazione gobettiana della violenza – che “si può usare quando vi sia persona capace di esercitarla e gli altri la tollerino” – si avverte una precisa influenza di Sorel (un autore che Gobetti richiama spesso), del suo mito fondato sul ruolo decisivo e purificatore della violenza proletaria, che annienta un mondo vecchio e decrepito, al quale sostituisce, senza incertezze e senza patteggiamenti, un mondo interamente nuovo. E non si può non aggiungere che le affermazioni di Gobetti (che anticipano, nella sostanza, quelle di Giovanni Gentile – un filosofo da lui molto amato, al quale egli dedicò un intero numero della sua rivista “La rivoluzione liberale” – sulla capacità di convinzione del manganello), oltre a essere assai poco liberali, suonano oggi anche non poco patetiche, perché della violenza avrebbe dovuto far prova egli stesso, personalmente e tragicamente, non molto tempo dopo, quando lo stato liberale cadrà sotto i colpi del fascismo.

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