Teresa Ciabatti (LaPresse)

L'invenzione della cattiveria

Simonetta Sciandivasci

La fantasia, la mitomania, Orbetello, il papà piduista, il Rivotril, il potere della lealtà, la dittatura della Tata, la letteratura sull'ininfluente. Conversazione con Teresa Ciabatti

Teresa Ciabatti scrive come nessuno dei colpi bassi, dei tratti abietti, dell’orrore che si porta dentro. Quando quell’orrore non è abbastanza, ne inventa uno più profondo, più meschino.

Teresa Ciabatti si peggiora, si esagera e alla fine si riserva l’odio migliore, la pietà.

Le chiedo se le va di chiacchierare di tutto, mi dice di sì, però devo sapere che non ha molto da dire, e se ne scusa, ma perché proprio lei, sono sicura?, e comunque va bene, se ci tengo va bene. Ci tengo, insisto. Le do appuntamento a cena e mi dice che cena alle sette e mezza, le chiedo una proroga, acconsente, qualche ora dopo ci ripensa, mi scrive che proprio non ha niente da dire, non vuole disturbare, perché mai qualcuno dovrebbe leggere quello che pensa e che dice, senza che nemmeno la sia andata a cercare? M’arrabbio un po’, si scusa, le prometto che non parleremo di Covid, di Conte e nemmeno di Proust, e alle 20 e 15 le siedo davanti, in una pizzeria del centro. Per lei è come se fosse mezzanotte.

 

Ma come, un’irregolare disfunzionale come lei va a letto presto?


“Mi sveglio alle sette tutti i giorni. Scrivo, pranzo, faccio un pisolino, mi rimetto alla scrivania, alle sette stacco, ceno, guardo la tv con mia figlia, m’addormento quasi subito. Non esco mai. Quando le mie amiche vengono a trovarmi, s’accordano con mio marito, non con me. Dormire è bellissimo, che male c’è?”

 

Ester Viola, come lei grande dormitrice, dice che niente è più grossier di dormire otto ore di fila. Si salvi, mi dica che ha almeno un disturbo del sonno, un’insonnia psicosomatica.

“Ho avuto incubi mostruosi per buona parte della mia vita. Ogni notte sognavo di morire. Cadeva il mio aereo e mi ritrovavo sott’acqua, vedevo i pesci, capivo che sarei annegata. Poi ho scoperto il rivotril, quindici anni fa, e ho trovato la pace. Adesso sogno di fare la valigia e, quando proprio sono agitata, di dimenticare di prendere un golfino”.

  

A occhi aperti cosa sogna?

“Tutto. Nella mia fantasia ho fatto e visto tutto, vinto premi, conquistato vette. La fantasia vale da esperienza, per questo non ho bisogno di vivere chissà come, uscire, far festa, andare all’avventura. Invento vite parallele e, inventandole, le vivo. Quando la realtà non mi dà ciò che vorrei, in fondo, non sono delusa: vado a prendermelo con la mia immaginazione”.

  

E’ per questo che scrive?

“Anche, certo. E ho capito subito che lo avrei fatto, sin da bambina, quando ero molto sola, molto fantasiosa, molto mitomane. Una volta – avevo dieci anni - scrissi sul mio diario che avevo fatto sesso con un compagno di scuola su un gradino. Mia madre lo lesse, s’infuriò, mi portò dal ginecologo per farmi prescrivere la pillola e io piansi, mi disperai, le dissi che non era vero, ma lei capì molto tempo dopo che ero una bambina sola, circondata da una realtà misera, e che per evaderla non avevo che quel diario, quelle bugie, quell’altra me”.

  

Che nemesi. Proprio lei che è finita divorata dalla protagonista del suo libro più famoso, “La più amata”, finalista al Premio Strega tre anni fa, e che era il suo alter ego deformato, estremo, terribile.

“Commisi un grave errore: quel personaggio, che ero io ma non ero solo io, cominciai a costruirlo sui social, e così tutti si convinsero che gli corrispondessi. Ma non posso protestare, me l’ero andata a cercare. Soffrii, invece, quando mi dissero che il libro era un diario, uno sfogo, la rivalsa di una bambina mai cresciuta, la viziata figlia del piduista di provincia che venerava suo padre. Per scrivere quel romanzo ci avevo messo quattro anni, e tutti quelli precedenti erano stati un avvicinamento graduale a quella storia, alla storia della mia famiglia che avevo preso e manipolato”.

  

Fare la stronza su Twitter le manca?

“Da morire. Anche perché non ero un hater. Non avendo, di mio, nulla da raccontare, avevo inventato un alter ego e gli mettevo in bocca cose terribili. La sua bassezza morale mi divertiva, ma la pagai cara. Ora sarebbe persino inimmaginabile ed è un peccato: i social offrono un’occasione narrativa irripetibile, dovremmo usarli così. Mi piaceva mettere in scena una cretina. E non era per niente semplice. La tentazione di molti scrittori, soprattutto maschi, è di infilare nei propri libri dei personaggi che siano la loro rappresentazione migliore. E allora leggi dialoghi prescrittivi, definitivi, che s’incaricano di spiegare il giusto, di dire cose assolute. Per me è molto più interessante, e difficile, raccontare l’ottusità. Lo vedo con mia figlia: noi parliamo di cose ininfluenti, come tutti. La letteratura deve stare vicino a quello scambio, deve coglierne il senso, o almeno saperlo rappresentare: molto più del cinema, può permettersi di non far crescere i suoi personaggi, di non rappresentare la risoluzione del conflitto e raccontare che nella vita non per forza si migliora, non per forza si cresce o, se pure si cresce, è possibile regredire”.

Lei ha scritto diverse sceneggiature. Il suo primo romanzo è diventato un film di Virzì, L'estate del mio primo bacio. Ha sofferto così tanto? 

“Sì. Soffrivo il dover lavorare in squadra, innanzitutto, perché non lo so fare. E poi non sopportavo di dover stare alle regole da manuale di intrattenimento. I grandi registi possono permettersi di fregarsene, ma nella maggior parte dei casi, ci si deve attenere a storie compiute, chiuse, esemplari. Lì forse ho imparato come non volevo scrivere”.

 

Ne “La più amata”, Ciabatti racconta la sua infanzia a Orbetello, la villa con piscina dove viveva insieme a suo fratello gemello molto più arrembante di lei, suo padre chirurgo piduista che riceveva cardinali e politici importanti, e che una volta fu anche sequestrato, e sua madre che lo copriva, e ai figli raccontava che papà è molto stimato perché è un bravissimo medico. Racconta la venerazione per un padre manipolatore, la fascinazione per il potere, la solitudine di una bambina alla quale veniva sempre detto di sì, e che rimase sempre sola, a fantasticare a bordo piscina. Lo Strega sembrava suo, il libro fu amato oppure odiato, alcuni le dissero che lei non era una vera scrittrice, altri che era l’erede diretta di Elsa Morante.

 

E adesso? Il potere le piace? La intriga? Soprattutto: lo esercita?

“Ho scoperto da poco che il potere è agire come si dice di voler agire. Niente mi dà più soddisfazione della lealtà, non solo perché penso che sia la cosa migliore che posso riservare a chi amo, ma soprattutto perché mi dà una misura della mia solidità, di come sono riuscita, nel tempo, a smarcarmi dalla compiacenza, dal controllo mio sugli altri e degli altri su di me, dal giudizio. Riuscire a essere chiara, diretta, decisa: per me che sono cresciuta nella doppiezza è una conquista strabiliante”.

 

Prima, invece?

“Se non avessi sposato mio marito, un uomo completamente refrattario al potere, e se non avessi delle amiche altrettanto disinteressate alla manipolazione, sarei probabilmente stata il frutto della mia famiglia. Un posto dove mi veniva detto e insegnato che si potevano ferire gli altri per il proprio tornaconto, che si poteva essere infedeli, che il centro di tutto e di tutti ero io. Ai saggi di danza, sebbene fossi la più sgraziata, finivo sempre al centro, ero sempre la prima ballerina, le maestre sapevano chi era mio padre e non c’era nemmeno da discutere: dovevo brillare più di tutti. Se mi fossi circondata, nella mia vita adulta, di persone come quelle maestre o come i miei familiari, non ne sarei mai venuta fuori. Io so come si può manipolare l’altro, l’ho visto fare, per molto tempo ho anche desiderato farlo. Ma ho creato una famiglia che mi disinnesca, che mi prende in giro, e che mi fa sentire anche il ridicolo e il grottesco del mio passato. Mia figlia non fa che ripetermi che sono lagnosa, che dico sempre le stesse cose. Mi imita, mi dice che mio marito sa più di me (ed è vero), e che non si capacita di come io abbia potuto laurearmi. E tutto questo mi ridimensiona, mi diverte, mi salva. C’è un’altra cosa che mi tiene lontana dal fare del male agli altri: sono troppo vile anche per quello. “La più amata”, se i miei genitori fossero stati ancora vivi, non lo avrei mai scritto, non sopporto l’idea di poter offendere, ferire”.

  

Come ha conosciuto suo marito?

“Era il mio insegnante di sceneggiatura alla scuola Holden. Mi innamorai immediatamente di lui, che però mi respinse. Fece bene: ero inconsistente. Dieci anni dopo lo rincontrai, insistetti, ci sposammo”.

 

Ha scritto un libro, “Matrigna”, su come è facile essere madri sbagliate, terribili. Su come la maternità possa peggiorare una donna. Con sua figlia come va?

“Ci amiamo moltissimo. E litighiamo furiosamente. Faccio tutte le cose che una madre non dovrebbe fare. Non sono in grado di dirle dei no, di darle delle regole, dei limiti: a quello pensa la sua tata, Svetlana, che forse è anche la tata di tutti noi. Tutti in casa le obbediamo. Mia figlia ha persino imparato il moldavo, la sua lingua. È a lei, non a me, che chiede il permesso di fare le cose. Io, tuttalpiù, la copro quando fa una cazzata. Sono sotto lo scacco di Svetlana anche io, e pensare che l’assunsi perché era molto sovrappeso: essendolo anche io, pensai che non avrebbe mai messo becco sul cibo, sulla mia forma, che non mi avrebbe rotto le palle sulla dieta. Invece, quando cominciò a lavorare per me, dimagrì. Ora lei e mia figlia mi dicono che mangio troppo, mi nascondono il cibo, mi insultano”.

 

Svetlana legge i suoi libri?

“Ne ha letto soltanto uno e mi ha detto che non le è piaciuto”.

 

Coraggiosa. E sua figlia?

“A lei della letteratura non frega niente. La prima volta che sono andata a un colloquio con i suoi insegnanti, mi hanno chiesto se pubblicassi le mie poesie, e dove: mia figlia aveva raccontato che passavo la giornata a scrivere poesie chiusa nel mio studio”.

  

E lei è preoccupata?

“Ma no. E’ una bambina, ha solo dieci anni. Legge gli Youtuber, che non sono affatto male. L’adolescenza non possiamo raccontarla noi, a quaranta o a trent’anni: devono raccontarla gli adolescenti. E questi non lo fanno male. Tra qualche anno, poi, sarò felice di consigliare a mia figlia i libri di Jonathan Bazzi, FumettiBrutti, Achille Lauro. A me questi ragazzi che stanno sfasciando le nostre regole e i nostri confini piacciono da impazzire. Dico che sono la loro nonna perché li ammiro, li sento vicini ma so che sono parecchio più grande di loro, e non voglio in nessuno modo assorbirli o competere con loro. Sono felice che mi abbiano superata, che abbiano superato tutti noi, e mi piace essere fuori dai giochi e poterli guardare dall’esterno. Non capisco chi non accoglie i giovani con entusiasmo, perdendosi anche l’occasione di sentirsi parte del loro successo: in fondo, se sono così bravi è anche perché noi abbiamo costruito un mondo che ha consentito loro di diventarlo”.

 

E’ serena?

“Di più: sono ottimista”.

 

Ha paura della morte?

“Non ci penso. Guardo mia figlia crescere e sono contenta, curiosa. Mio padre, che fino a sette anni fa era il centro delle mie ossessioni, è ormai un ricordo con cui ho fatto pace, non lo sogno neanche più. Sogno mia madre: sogno di litigarci violentemente, come abbiamo fatto per tutta la vita. E quando mi sveglio non sono turbata. La sento più vicina, presente, come se mi avesse abbracciata una volta ancora”.

 

Le persone le piacciono?

“Temo le moltitudini e quando cammino per strada evito i gruppi perché mi terrorizza l’idea che mi osservino. Ma la sola cosa di cui voglio scrivere sono le persone. Nei miei libri non ci sono descrizioni di cieli, nuvole, alberi, cespugli: il mio sguardo è sempre ad altezza d’uomo”.

  

La natura le piace?

“Per carità. Quando vado in campagna mi chiudo in casa. Odio persino i cerbiatti: di notte gridano in modo osceno. Un mio editor, anni fa, mi disse che avrei dovuto inserire qualche paesaggio nei miei libri. E allora mi misi a studiare, creai un file con le migliori descrizioni di paesaggi che trovavo nei libri che leggevo, per poi disporne. Ne “La più amata” ne ho copiaincollata una di Starnone”.

   

Lui lo sa?

“Gliel’ho raccontato l’anno scorso. Mi ha promesso che per il mio compleanno me ne scriverà una originale, solo per me, così potrò metterla in un mio libro senza che sia un plagio. E meno male che non sono tradotta all’estero: qualcuno potrebbe accorgersi che i cieli e i venti li ho presi tutti da Oates”. 

Visto che si sente già nonna, pensa mai a cosa lascerà in eredità? 

“Quello che ho ereditato a mia volta. Di mio non ho comprato niente, non sono ricca: la ricchezza è stata un’altra invenzione, un'esagerazione narrativa che mi si è ritorta contro e tutti pensano che io sia una miliardaria, peraltro malvestita. A mia figlia dico sempre che non deve azzardarsi a regalare le bambole reborn: sono sette, bellissime, sistemate in una cesta di vimini. Le ho comprate tutte io, saranno il mio lascito per lei”. 

Dice che le basta sognare per appagare i suoi desideri, ma non ci credo. Un grande obiettivo lo avrà, no? 

“Voglio che mio marito si convinca a farmi una piscina in campagna. Non chiedo altro da quindici anni. Ma lui si rifiuta, continua a comprare trattori”. 

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