Marc Chagall, La Vie, una delle sue opere più celebri (un olio su tela del 1964)

La quotidianità raccontata dalle parole magiche di Francesco Piccolo

Nadia Terranova

“Momenti trascurabili”, la trilogia per Einaudi e quella che fa con certe parole, che non potranno più essere le stesse

Il quinto senso, che come il settimo nano non ti viene mai quando li elenchi tutti, rimane sempre sulla punta della lingua. Il cinque per mille che non ci fa dormire perché tutte le associazioni benefiche cui non l’abbiamo donato piangono per l’esclusione, come i calzini disordinati nei libri di Marie Kondo. Il riflesso condizionato che fa accelerare alla guida quando l’ambulanza passa più veloce. I sintagmi afferrati dalle nostre orecchie e reiterati all’infinito, come “itinere le frecce”, che non possiamo slegare da un treno anche se non sappiamo cosa vogliano dire, e perché, e a chi. Lo schiaccianoci, uno solo per famiglia, quando è evidente che intorno a lui si affolleranno cento mani, non basteranno mai gli schiaccianoci per tutta l’umanità.

  

Potrei andare avanti in quest’attività di selezionare e copiare (in peggio) quello che Francesco Piccolo ha già scritto con quella grazia tutta sua di aver visto quello che tutti vedono, però prima e meglio, in questo terzo volume dei “Momenti trascurabili”, pubblicato da Einaudi come gli altri. Di fronte a questa serie, vale il primo pensiero dello sguardo disabituato all’arte contemporanea: ma questo potevo farlo anch’io! Proprio allo stesso modo, la risposta è: no, è un inganno, provateci voi a identificare i momenti di trascurabile felicità e infelicità e a continuare i libri di Francesco Piccolo, non vi verranno, non vi verranno mai. La misura del lavoro che da anni Piccolo fa sulla quotidianità è in quell’autorialità di robusta leggerezza, nel sollievo che lui abbia aperto una porta su tic e reazioni, oppure nel dispetto di non riconoscersi e sentire che non sta affatto parlando di te, ma contro di te (eccomi, esco con le mani alzate: sono io quella che se c’è una torta con le pere ordina la torta con le pere). C’è una magia che Piccolo fa con certe parole, che non potranno più essere le stesse: qui è “cartomante”, cioè la persona che con visionarietà infausta predice alla moglie che entro l’anno avrà un nuovo amore. Anche “caricabatterie” esce come parola trasformata dalla storia di Giusi, la ragazza che vive con gli occhi bassi, fissi alla carica del suo telefono. E Paolo Virzì, che non è un nome comune ma un nome proprio: è uno dei miei registi preferiti, ma ormai sarà più che altro “uno spoileratore automatico”, uno che ti racconta in anticipo come va a finire tutto, dai film alla tua vita.

 

C’è un’allegra malinconia in questi momenti, come se la felicità fosse possibile solo tutta intera, però sempre, in ogni istante, anche in quelli di infelicità. Osip Mandel’stam ha scritto: “Come uno storno fischiarsi la vita / come torta di noci divorarla”, e nella vorace vitalità di Francesco Piccolo, che non esclude le declinazioni della malinconia, è così che va (e la torta, per fortuna, non è di pere). A volte, dopo che leggo i suoi libri, sento che quella fame trasformata in felicità non stucchevole, in infelicità non depressiva, esiste solo nelle sue righe e, da qualche parte, nella persona che vorrei essere. Vorrei chiedergliene il segreto. Ma prima gliene chiederò un altro: dov’è che solo lui appoggia il bicchiere alle feste, su quale mensola, in quale angolo, dietro a quale libro – dietro ai suoi, forse, perché immagino come li potrebbe guardare ritrovandoseli davanti in un’altra casa. In questo libro c’è scritto qualcosa che mi ha fatto molto vergognare sugli scrittori che tengono in vista i propri libri, soprattutto quelli tradotti. Non inviterò mai Francesco Piccolo a casa mia, oppure nasconderò tutti i miei libri, però quando poi lo vedrò con il bicchiere in mano, in un’altra casa, in un’altra festa, mi unirò a quelli che confondono la persona con l’io narrante e dovrò per forza sapere se davvero non sa sorseggiare.

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