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Christo e l'arte di nascondere il bello giocando con urbanistica, architettura, teatro e scultura

Francesco Stocchi

E' morto a 84 anni l'artista di origini bulgare. Una vita in fuga, poi l’incontro con Jeanne-Claude Denat de Guillebon

E’ morto a 84 anni Christo Vladimirov Javacheff, il celebre artista che insieme alla moglie Jeanne-Claude Denat de Guillebon ha realizzato idee ritenute impossibili, dando forma, spazio e colore a immaginari visionari degni di un bambino.

 

La vita di Christo ripercorre in forma epica buona parte della storia del XX secolo. Nato bulgaro, morto naturalizzato statunitense, Christo vive un’infanzia agiata a Gabrovo paese arroccato sui Balcani, fino all’invasione nazista. Il bambino non smette di disegnare e dall’età di 6 anni non ricorda di aver fatto altro che l’artista. Nel 1956 senza nemmeno saperlo inizia la fuga verso l’ovest. Riesce finalmente a visitare Praga per salutare parenti che non aveva mai visto. Rispetto alla Bulgaria, lì si respira un’aria più libera. Ma l’arte che cerca è considerata degenerata, inclusi i Van Gogh e i Picasso cubisti protetti nei sotterranei dei musei da sguardi che cercano in quelle forme libertà ed evasione. Nell’autunno inizia la rivoluzione ungherese, Christo sale su un treno diretto a Vienna nascondendosi con altre 15 persone su un vagone di farmaci. La fuga di gruppo diventa progressivamente una fuga individuale e, valicata la frontiera, ognuno fa per se, nessuno vuole più sapere dell’altro. Riesce a iscriversi all’accademia di Vienna, evita così come studente di finire negli sterminati campi profughi allestiti alle porte della città. Rinuncia alla sua cittadinanza e per 17 anni, fino al 1971, Christo sarà apolide. Nel 1958 arriva a Parigi dove incontra subito Jeanne-Claude, compagna di vita, nata lo stesso giorno dello stesso anno.

 

Ispirato un po’ da Man Ray, che nel 1920 con l’opera Mystere d’Isidore Ducasse cela sotto una coperta di feltro la definizione di bello, appena arrivato a Parigi Christo inizia a impacchettare oggetti comuni, celandone il colore, offuscandone le forme, cancellandone il peso. Un pop né britannico, né statunitense che trova in Arman, Yves Klein, Daniel Spoerri, e Jean Tinguely, artisti interessati a usare oggetti quotidiani come soggetti delle loro opere, sviluppando lo stile noto come Neo-realismo. Con il tessuto (o il polietilene) Christo nasconde gli oggetti e, grazie alla tensione applicata con la corda, ne rivela le forme. Inizia con lattine, poi riviste, telefoni, motociclette, nel 1961 a casa di Yves Klein avvolge una donna: è l’inizio dei gesti effimeri che non abbandonerà più, dichiarando negli anni 90: “Ritengo che ci voglia più coraggio a creare cose che poi se ne vanno, che a creare cose che restano”. Nel 1963 è la volta di una delle statue di Villa Borghese, prima opera in Italia che segna anche la fine di interventi autonomi e l’indizio di progetti che si avvalgono dell’organizzazione di Jean-Claude. Christo si occupa dei disegni preparatori, venduti per finanziare l’opera finale inventandosi un modello di business unico nel suo genere. L’anno successivo la coppia si trasferisce a New York e da lì i due iniziano a mappare il mondo in cerca di luoghi iconici da trasformare attraverso la loro apparente negazione. Nel 1968 in occasione del Festival dei due Mondi, Christo e Jean-Claude pensano di avvolgere il Teatro Nuovo di Spoleto, ma le leggi antincendio ne impediscono la realizzazione. Christo parte improvvisamente per Berna perché il giovane direttore della Kunsthalle, Harald Szeemann, gli offre la prima opportunità di avvolgere un intero edificio come se fosse un oggetto. Nel frattempo, Jean-Claude rimane a Spoleto scegliendo di avvolgere una torre medievale all’ingresso della città e una fontana barocca nella piazza del mercato. L’istallazione durerà tre settimane per tutta la durata del Festival e non sarà quindi l’unica opera mai vista da Christo in persona impegnato in Svizzera.

 

I progetti diverranno nel tempo sempre più ambiziosi e sempre più visionari, discussi e a volte politicamente impegnati, in un linguaggio tra l’urbanistica, il teatro, l’architettura e la scultura. L’ambientazione sembra quella dei set cinematografici. Dagli anni 70 fino a oggi è un susseguirsi di edifici simbolici che vengono impacchettati o grandi ambienti naturali delineati da colori e tessuti: dal monumento a Vittorio Emanuele II in piazza del Duomo (1970), a “Valley Curtain”, un telo lungo 400 metri steso lungo una valle delle montagne rocciose in Colorado, Porta Pinciana a Roma nel 1974, fino al Reichstag nel 1995 e “The Floating Piers”, una passerella di 4,5 chilometri sul Lago d’Iseo realizzata nel giugno 2016 che attrae un milione e mezzo di persone. Più che una Land-Art, come è stata definita, un’arte ambientale, spettacolare ed effimera di dimensioni oltre la scala umana, partecipativa, che si completa solo con le persone. L’anno prossimo si potrà vedere a Parigi l’opera postuma “L’Arc de Triomphe, Wrapped”, progetto proposto nel 1962, previsto per quest’anno e rimandato a causa della pandemia. Opere d’arte toccabili, calpestabili, che si fruiscono in movimento, dove non è richiesto un biglietto d’ingresso ma un certo oblio e altrettanta ironia rispetto a un pragmatico visionario che si definiva così: “Sono stato istruito come marxista. Uso il sistema capitalista fino alla fine. E’ economico, intelligente e sarebbe stupido non farlo”.

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