Il valore dell'arte

Maurizio Crippa

La scelta di Intesa Sanpaolo di rivalutare a fair value il suo patrimonio è un esempio per tutti

Milano. La copertina è austera, il lungo titolo asettico è da relazione tecnica: “La rideterminazione a fair value del valore del patrimonio storico-artistico di Intesa Sanpaolo - Note metodologiche ed effetti bilancistici”. Eppure, aprire il piccolo volume pubblicato da Aragno è come aprire uno scrigno. Non soltanto perché il “white paper”, di questo si tratta, passa allo scanner un patrimonio che supera abbondantemente le 30 mila opere, cui va sommato il valore delle tre sedi museali del sistema Gallerie d’Italia (Milano, Napoli, Vicenza) che fanno della ricchezza artistica della banca una delle più importanti collezioni corporate al mondo. Ma anche, o ancora di più, perché il lavoro compiuto è esemplare: nel senso che potrebbe fare da esempio ad altre istituzioni che volessero intraprendere la stessa strada per valorizzare un pezzo della propria storia, e dunque del proprio patrimonio. E renderlo inoltre “un bene comune”, qualcosa di cui può beneficiare la collettività.

 

Che cosa fa un soggetto economico privato, quando si accorge di avere un patrimonio di arte ingente? Si interroga su come conservarlo e valorizzarlo. In altre parole, si sente investito di una responsabilità: verso i propri investitori, certo, ma anche verso il sistema culturale dell’intero paese. Rideterminare il valore a prezzo corrente di mercato – la rivalutazione a fair value – di beni che nel corso di decenni o secoli sono rimasti, per così dire, in quota ammortamento è un passaggio decisivo. Può sembrare un’operazione meramente bilancistica, ma non è così. Perché si è resa necessaria questa rivalutazione? Ce lo spiega Michele Coppola, direttore esecutivo Arte Cultura e Beni Storici di Intesa Sanpaolo: “Perché è una responsabilità della banca, anche nei confronti dei propri clienti, avere un quadro aggiornato del proprio valore patrimoniale. Le faccio il caso più estremo: il Martirio di Sant’Orsola di Caravaggio, che è a Napoli, essendo di nostra proprietà da tempo immemorabile andava assolutamente sottoposto a valutazione aggiornata. Pensi che molti beni erano ormai inventariati al valore simbolico di un euro. Questo è frutto di sedimentazioni nel tempo, di acquisizioni, donazioni, lasciti, fusioni, con provenienze e eterogenee. Occorreva una analisi sistematica. Ma questo, magari con dimensioni meno ingenti rispetto alle nostre, è una necessità per molte banche o fondazioni, tanto più in un paese così ricco di arte come l’Italia. In questo senso, siamo orgogliosi di aver indicato un percorso virtuoso”. Michele Coppola ha firmato il libro-relazione assieme a Fabrizio Dabbene, direttore esecutivo Amministrazione e Fiscale, nonché dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili e societari della banca. E’ Coppola a raccontare il lavoro che è stato fatto e che ha permesso, dal bilancio 2017, di registrare a un valore di 270 milioni di euro le 3.500 opere di alto interesse culturale (la selezione che si è deciso di valorizzare), mentre nel complesso il valore dei beni artistici e immobiliari del settore Cultura arriva a 850 milioni di euro. Un lavoro ovviamente svolto grazie a consulenti specializzati (Eikonos Arte e altri) e in stretto dialogo con il Mibact: una parte consistente delle opere è stata ad esempio vincolata alla “dichiarazione di interesse culturale” del ministero che regola i criteri di conservazione, di prestito e di esposizione. Dal punto di vista tecnico, la scelta innovativa è aver abbandonato la valutazione delle opere in base al criterio del costo storico (che spesso si perde nel tempo), e aver adottato il criterio fair value. “Non si tratta solo di mettere a valore dei beni, cosa doverosa – spiega Coppola– Si è trattato, posso dirlo per tutta la banca e in ogni settore coinvolto, di una ‘acquisizione in consapevolezza’ di ciò che siamo anche come responsabilità pubblica”.

 

L’espressione “corporate art” è entrata nel linguaggio dell’economia e del mercato dell’arte da una trentina di anni, parallela all’elaborazione di differenti modelli per valorizzare il proprio patrimonio messi in atto da grandi banche internazionali che detengono i fondi d’arte più ingenti: Bank of America, Deutsche Bank Collection, JPMorgan Chase Art Collection, La Caixa Collection, Ubs Art Collection, per citare le maggiori. Esistono vari stili di fare “corporate art”: i musei aziendali, le collezioni disponibili solo nelle proprie sedi, la distribuzione delle opere in luoghi espositivi pubblici. Intesa Sanpaolo, che oggi si colloca fra i maggiori gruppi proprietari, è soprattutto una delle prime banche in Europa ad aver realizzato un’operazione così completa e ad aver scelto un proprio modello culturale. E’ quello dei musei di Gallerie d’Italia (il primo è stato inaugurato nel 2011) nell’ambito del Progetto Cultura di Intesa Sanpaolo, nato ovviamente dalla visione di un banchiere-umanista come Giovanni Bazoli. Sua è, come è noto, l’idea di riconosce un principio di “responsabilità sociale” nel lavoro di una banca, che si declina anche nel contributo a uno sviluppo non solo economico del paese. Da un lato, l’idea che la finanza debba “restituire” qualcosa alla società (non a caso “Restituzioni” si chiama il progetto con cui dal 1989 il gruppo finanzia restauri di opere che non sono di sua proprietà, private e pubbliche). Dall’altra l’idea di un impegno stabile che sopravanza il modello della semplice sponsorizzazione e coinvolge direttamente la banca nei progetti sostenuti. Ora a tutto questo si è aggiunta una rivalutazione del patrimonio che non si limita a rendere la banca “più ricca”, ma ne fa uno degli operatori nel settore arte e cultura più attivi in Italia, con una crescente proiezione internazionale. La necessità di valorizzare come “sistema paese” un patrimonio artistico pressoché infinito è da molto tempo al centro di ogni discorso pubblico e politico, anche se spesso si rimane al discorso. Il modello scelto da Intesa Sanpaolo è un esempio per il settore privato (banche, fondazioni, aziende che possiedono collezioni spesso importanti) e anche per lo stato: serve a ricordare che l’integrazione tra pubblico privato è sempre virtuosa.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"