Elaborazione grafica Il Foglio

La poetessa lieve

Micol Flammini

Un nuovo libro per entrare nella vita di Wislawa Szymborska. In punta di piedi, tra i suoi versi sottilissimi e veloci come giavellotti

Non c’è vita

che almeno per un attimo

non sia stata immortale

(“Gente sul ponte”, Wislawa Szymborska)

 

Wislawa Szymborska era piccolissima, come piccola e minuta è la sua poesia. I suoi versi hanno una consistenza quasi corporea, sono leggeri, taglienti. Sono foglie o giavellotti. Sono aeroplanini di carta che portano messaggi rapidi, ma indelebili. In questi messaggi che sono poesie Szymborska scriveva di lei, della sua vita, di ciò che vedeva, ciò che sentiva, scriveva di oggetti, di case abitate e anche di quelle disabitate, scriveva di storie, di viaggi, di templi, di gatti, scriveva di amori. Scriveva di lei, ma non di noi, non di tutti noi e, pur raccontandosi in forma di versi, una delle cose che più amava al mondo era la discrezione. Per questo scrivere della poetessa polacca, premio Nobel per la Letteratura nel 1996, sembra quasi di farle un torto, di invadere la sua vita, di rubarle parole e sguardi, di rompere quello stupore che ammanta ogni sua parola, anche la più piccola.

 

Questa sensazione, questo senso di colpa un po’ truffaldino si perde invece di fronte al libro di Michal Rusinek, Nulla di ordinario (Adelphi), che racconta e dipinge la dimensione esatta entro cui si muove la poesia di Wislawa Szymborska. Rusinek ha un’arma in più data dalla vicinanza e dalla consuetudine, e con delicatezza restituisce al pubblico la quotidianità della poetessa, gli oggetti, i tormenti, piccoli e mai esagerati. Permette di indagare la sua vita senza mai avere l’impressione di rubarle qualcosa. Era un giovane studente quando iniziò a lavorare per Wislawa Szymborska, ne divenne segretario personale. Segretario è una parola fredda, lui era qualcosa di più, un aiutante, un’ombra calda che l’ha seguita per quasi vent’anni cominciando la sua avventura dal Nobel che fece così tanta paura alla poetessa. Quando ricevette la telefonata dalla Svezia, la “signora Wislawa” – Rusinek nel parlare di lei la chiama così o usa le iniziali WS – era a Zakopane, centro prediletto di artisti e scrittori sui monti Tatra. Da quel momento non smise di essere assediata, anche chi di lei non aveva mai saputo nulla, improvvisamente, si accorgeva di lei, e magari meno delle sue poesie. Non faceva altro che firmare autografi, “tutta questa attenzione mi soffoca”, confidava stanca a Rusinek e agli altri che la accompagnavano nell’impresa. Era un continuo ricevere lettere, richieste di interviste, che lei spesso rifiutava, non amava parlare di sé, per quello esistevano i versi, ai giornalisti dava risposte inaspettate: “Questa è una domanda davvero difficile, non so rispondere, ripassi in autunno”. Spesso rispondeva con un “Non lo so”, leggero, smarrito, non c’era nessuna impazienza dietro al suo non sapere, ma c’era un’ammissione.

 

Michal Rusinek è autore di “Nulla di ordinario”. Era l’ assistente di WS e qualcosa di più di un segretario, il suo “aiuto nella vita”

Appena ricevuta la notizia del Nobel, il suo amico Czeslaw Milosz, anche lui polacco, anche lui premio Nobel qualche anno prima, l’aveva avvisata, le aveva detto che sarebbe stato un anno convulso, pieno di personaggi inopportuni, di messaggi inaspettati e rideva, lo scrittore, pensando a lei, così discreta e innamorata del suo vivere silenzioso, immersa nel valzer impietoso a cui l’Accademia svedese aveva dato inizio. Il primo tormento: il discorso per il Nobel. WS era terrorizzata, secondo gli svedesi il suo era troppo breve. Eppure, dai racconti di Rusinek, la cerimonia del Nobel era stata gradevole. Certo, Wislawa Szymborska si era dovuta intrattenere con il re, ma il fatto che anche lui fumasse, più o meno quanto lei, e la confessione che avrebbe preferito passare il suo tempo nel bosco e non a quei ricevimenti lo avevano reso incredibilmente simpatico. L’anno da Nobel corse via in fretta, gli impegni erano molti, le lettere tantissime, arrivavano anche richieste di denaro, sfide, commenti alle sue poesie, regali e le immancabili richieste di interviste in patria alle quali la poetessa rispondeva: “Ho già tenuto un’intervista nel 1975, da allora non ho più nulla di nuovo da dire”. Eppure Wislawa Szymborska di cose da dire ne aveva tantissime, le lasciava però lì, incastrate tra i suoi versi, tra le sue parole che sono dettagli, sono piccole pietre. Attraversa l’anno del Nobel nell’attesa, nell’attesa che passi, per poi scoprire che invece si rimane Nobel per tutta la vita. Non spariscono le attenzioni, non spariscono le visite. “A me adesso non si fa più visita, ma mi si visita”, diceva scherzando quando le guide turistiche cercavano di intrufolare, tra una visita al castello del Wawel e una alle miniere di sale di Wieliczka, anche un incontro con la poetessa premio Nobel.

 

C’era un legame tra il respiro e i suoi versi. Quando con l’età il suo fiato iniziò a farsi più breve, anche i suoi versi divennero più corti

Se c’era una categoria che Wislawa Szymborska amava molto erano i suoi traduttori. Con loro, maestri funamboli, la poetessa amava instaurare un legame particolare, erano il suo prolungamento all’estero, il suo specchio in altre lingue, gli ambasciatori della sua poesia. Per questo andavano scelti con cura. Racconta Rusinek che quando dalla Francia arrivarono delle proposte di traduzione, tre in tutto, WS chiese di controllarle, “Voglio vedere come se la cavano”. Tra i testi tradotti, predilesse quelli che le erano stati inviati da Piotr Kaminski, un polacco emigrato al tempo della legge marziale, che oltre a essere il suo traduttore, diventò anche suo amico, tra i più cari. Wislawa Szymborska aveva una gran paura, lei così attenta alle pieghe delle parole come a quelle della vita, ci teneva che la sua opera non venisse riassunta in un’altra lingua, come spesso accadeva, ma vivesse in un’altra lingua. Non era questa la sensazione che provò di fronte alle traduzioni di Piotr, conosceva il francese e si rendeva conto che il traduttore era riuscito a restituire le nuances della sua poesia. Un altro traduttore con cui ebbe un rapporto importante fu Pietro Marchesani, l’estensione delle sue parole in italiano.

 

Wislawa Szymborska non era schiva, né silenziosa, né modesta. Aveva il culto dei suoi spazi, spazi che condivideva il più possibile con amici, con le sue poesie e i suoi oggetti. Era piena di oggetti, una passione per il kitsch, per la pienezza. Un’attenzione per le carte, anche le cartacce, per l’innecessario. Tutto ciò di cui si circondava era tanto, ma era ordinario. Nella sua necessità di superfluo rientravano anche i limerick, le filastrocche recitate con gli amici, c’erano anche collage, cartoline, ritagli, disegni. Poi la sua vita, così piena, si trasformava in poesia, in parole in volo. E basta un mobile per capire la voglia di superfluo della poetessa e l’ansia di domarlo. Un mobile ordinato da lei, stretto, strettissimo, con troppi cassetti per esistere davvero. Un mobile enorme che arrivava al soffitto, talmente alto che lei, così minuta, non sarebbe mai arrivata ai cassetti in cima. Infatti non aveva alcuna intenzione di arrivarci, lo spazio in alto era dedicato a tutto ciò che era burocratico oppure ai manuali di istruzioni, le serviva una scusa per non vederlo più. “E’ il genere di scrittura che odia di più. Lo chiama ‘le costruzioni’”.

Alcuni cassetti, quelli centrali, erano dedicati a Kornel Filipowicz, l’uomo, come riconosce anche Rusinek, più importante della sua vita.

 

L’amore, nella vita di WS, è ovunque. E’ ingombrante e pieno di silenzi. L’autore, forse per discrezione, ne scrive qua e là, lo sfiora. WS era stata prima legata ad Adam Wlodek, suo marito, poi a Kornel Filipowicz. Entrambi poeti, come lei. Per l’anniversario della morte dei due, Wislawa Szymborska organizzava delle feste nel suo appartamento dove invitava una ventina di persone. Il punto d’incontro era il cimitero, partiva da quel posto, dalle tombe dei due per poi proseguire il giro.

Nella sua poesia la morte è presente quanto la vita, non appartiene a chi va via. La morte, come la vita, è un affare di chi resta

Nella poesia di Szymborska la morte è presente quanto la vita, si nasconde dietro alle parole, e non appartiene mai a chi va via. La morte, come la vita, è un affare di chi resta. A lei sono dedicati tanti versi, appesi alla vita come sospiri. Dietro la morte ci sono le domande, ci sono i se, ci sono le probabilità. “Un sentore di piccole tombe al cimitero/ Noi, i longevi, le oltrepassiamo furtivi, come i ricchi oltrepassano i quartieri dei poveri/”, inizia così “Bagaglio del ritorno”, una poesia fatta di frammenti di vite perdute, lasciate alle domande di chi è rimasto. Michal Rusinek scrive a bassa voce dell’amore, Kornel Filipowicz lo ritroviamo nelle case abitate dalla Szymborska, nei suoi cassetti, nelle foto che appaiono qua e là. Anche quel rapporto, anche quell’amore, spesso appare nelle poesie con la forza dell’assenza. E’ il trauma del ritorno, la paura degli spazi non più abitati, ma da cui la vita sembra uscire fuori, e allora per tenerla stretta quella vita, per non farla fuggire via, c’è soltanto la tentazione di chiudere le finestre, trattenere il respiro, affinché quel ricordo di vita, fatto di odori, di oggetti pieni di presenza umana, dell’ultima sigaretta spenta nel posacenere, non se ne vada, rimanga come un fantasma a popolare la vita di chi è rimasto. E’ questo “il privilegio della presenza”. Alla morte di Kornel Filipowicz, di cui lei era gelosissima, Wislawa Szymborska scrive una poesia che non gradiva venisse recitata in sua presenza o durante qualche incontro pubblico: “Il gatto in un appartamento vuoto”. “Morire – questo a un gatto non si fa” e prosegue, “Qualcosa qui non comincia /alla solita ora./ Qualcosa qui non accade /come dovrebbe. / Qui c’era qualcuno, c’era,/ poi d’un tratto è scomparso/ e si ostina a non esserci.” Al gatto, a quel gatto che andò a vivere in campagna con dei parenti di Kornel Filipowicz, WS continuerà a mandare delle lettere.

 

Oltre all’amore, l’altro argomento che Rusinek, per sua stessa ammissione, non riesce ad affrontare con la poetessa è la guerra. Pensare che dietro a tanta levità e curiosità, dietro alla signora che organizzava lotterie nel suo appartamento, potesse esserci una storia di tanta sofferenza, forse al giovane aiutante non doveva sembrare possibile. Così quando nel 2011 ricevette dalla poetessa “Lo specchio” da trascrivere non seppe bene come reagire. La poesia è una delle poche in cui WS parla di guerra. Di versi dedicati al secondo conflitto mondiale ce ne erano stati altri, molti finiti nel cestino, alcuni suoi amici e autori avevano parlato della tragedia in modo “inarrivabile”, diceva lei, che raccontava spesso di quando, sporgendosi dalla finestra, aveva visto i primi carri pieni di corpi e aveva avuto l’impressione che quell’immagine l’avesse già conosciuta, non era nuova e quella sensazione fu il suo vaccino. La guerra tornò nel 2011, riflessa in uno specchio che non rifletteva più, “E così, come ogni oggetto fatto bene, /funzionava in modo inappuntabile,/ con professionale assenza di stupore”.

Era più portata per l’ironia che per la tragedia, lei con la sua figura minuscola e il suo sguardo immenso, con un sorriso sempre accennato, quasi dipinto sul volto. I suoi segni particolari?, le chiesero una volta dopo che aveva vinto il Nobel. Risposta: “Incanto e disperazione”.

 

I suoi segni particolari? Le chiesero una volta dopo aver vinto il Nobel nel 1996. Risposta: “Incanto e disperazione”

Wislawa Szymborska fumava moltissimo, passava le giornate con la lunga sigaretta incastrata tra le dita, altrettanto lunghe. Fumare, diceva, le serviva per scrivere e c’era un legame molto stretto tra il respiro e i suoi versi. I versi dovevano uscire dalla voce, un verso era un respiro e quando con l’età il suo fiato, affaticato dagli anni e dal fumo, iniziò a farsi più breve, anche i suoi versi divennero via via più corti. “Wislawa Szymborska riteneva che non si dovesse telefonare a nessuno prima delle dieci del mattino. A meno che non fosse successo qualcosa di brutto. Perciò quando il 22 novembre 2011 mi telefonò alle nove, capii subito che il motivo era serio”. Inizia così “Nulla di ordinario”. La frase torna verso la fine del libro, quando Rusinek ci lascia entrare nell’ultimo periodo della vita di WS. Sempre in punta di piedi. L’ospedale, i giornalisti, i pazienti che la riconoscono e la morte di un caro amico, Pietro Marchesani. Poi il ritorno a casa e l’attesa vissuta nell’assenza della parola morte che pure aveva abitato tante sue poesie. La voglia di aringhe alla giapponese, i romanzi – “Il circolo Pickwick” e “La montagna incantata” – le sigarette, ancora, e lei sempre truccata, sempre ben vestita. Un giorno accolse Michal Rusinek seduta in poltrona, le unghie dipinte, i capelli raccolti. L’immagine lei l’aveva già ritratta in un collage che recava la scritta: “Antigone attempata, se non fosse scesa nella tomba”, e ancora: “La mia ultima fotografia”. Il due febbraio fu “Il giorno dopo senza di lei” e anche in questo caso aveva previsto tutto, Wislawa Szymborska aveva scritto anche di questo. “La mattina si preannuncia fredda e nebbiosa./ In arrivo da ovest/ nuvole cariche di pioggia./ Prevista scarsa visibilità./ Fondo stradale scivoloso”.

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