Harold Bloom

La morte di Harold Bloom, a cui piacevano gli scrittori bravi, per lo più bianchi e del passato

Mariarosa Mancuso

Una lista, con Shakespeare in cima. Perché un’isola deserta può sempre capitare 

Era il paladino dei maschi bianchi morti. Intesi come scrittori (va a carico suo anche l’ultimo libro di Bret Easton Ellis intitolato Bianco, sottinteso “maschio e privilegiato”). A Harold Bloom piacevano gli scrittori bravi, bravissimi, fantasmagorici. E del resto cosa dovrebbe fare un critico, se non scegliere i campioni e non farci sprecare tempo con i mediocri? Primo in classifica, William Shakespeare: non solo ha costruito un mucchio di personaggi, ma a lui dobbiamo – suggerisce un saggio del campione dei critici – L’invenzione dell’uomo. Non ha scopiazzato quel che vedeva in giro, ci ha aggiunto parecchio del suo. Il “canone occidentale” compilato da Harold Bloom fu accolto come una dichiarazione di guerra. Molte le materie del contendere. Il fatto che servisse un canone, per cominciare. L’idea di un canone solo occidentale, e non esteso all’universo mondo. La constatazione che su 850 scrittori nominati (già visti con antipatia perché in cima alla lista, che ingiustizia verso i poveretti che dietro arrancano) la maggior parte fossero appunto bianchi e defunti da un bel po’. 

 

Ultima obiezione, non sempre esplicita, da parte dei critici colleghi: “Chi crede di essere costui? perché si arroga il diritto di dire “tu sei dentro, tu rimani fuori”? Harold Bloom minimizzava: “Bisogna sapere cosa portarsi dietro, un’isola deserta può sempre capitare”. 

 

Il canone occidentale entrò nella classifica dei bestseller, caso più unico che raro per un massiccio volume di critica letteraria. Era il 1994. Harold Bloom divenne un personaggio, non soltanto per gli studenti che frequentavano i suoi corsi, chiamati “Dear” senza distinzione di sesso. Divenne il nemico pubblico numero uno per la critica marxista, femminista, o multiculturale: attivisti che volevano allargare i confini del canone, tutti avevano il diritto di essere rappresentati. Chi arrivava dalle periferie del mondo, chi non aveva fatto prima sentire la sua voce, chiunque avesse qualcosa da rivendicare. Escluderli dal canone avrebbe perpetuato l’oppressione. Bloom preferiva celebrare Don DeLillo, Philip Roth, Cormac McCarthy, per stare ai contemporanei.

 

Disse “Scuola del risentimento”, per liquidare i questuanti in blocco. Cogliendo uno dei tratti caratteristici del mondo che abbiamo intorno, prima che fosse chiaro anche alla Pixar e al film di Brad Bird Gli incredibili (leggere tanti libri aiuta; e certo, sappiamo benissimo che faremo rivoltare Harold Bloom nella tomba per l’orrore del paragone pop, ma noi non riusciamo a campare di solo sublime). Dal canone occidentale a oggi, c’è stato l’assalto alla diligenza: prima i neri, poi le donne, poi gli asiatici, poi una casistica sempre più minuziosa e peregrina di torti da risarcire, sensibilità da rispettare, generi sessuali da sfumare. L’idea che per entrare nel canone (ma anche soltanto in libreria) si debba saper scrivere – anche per non tediare il lettore pagante, che ha il diritto di non essere molestato con lagnose forme di autofiction – è sempre meno popolare.

 

Tra tutte le accuse mosse a Harold Bloom, la più ridicola riguarda la scarsa considerazione per le scrittrici (sempre che si possano fare differenze in base alla sola lettura, se appena saliamo un po’ di livello rispetto alla prosa di Elena Ferrante). Gli piacevano Jane Austen, George Eliot e Emily Dickinson, non c’era bisogno di dargli il tormento perché non apprezzava Toni Morrison. Nel Libro di J avanza l’ipotesi – e ampiamente la dimostra, partendo dai testi – che il Dio del Vecchio Testamento fosse un personaggio romanzesco, inventato da una donna vissuta alla corte di Re Salomone. Calcoli la candidata che difende la causa femminista quante scritture femminili stroncate può valere una simile audacia.

 

Era nato nel Bronx, suo padre lavorava nel tessile. Arruffato e grassoccio, con le sopracciglia foltissime, rivendicava una somiglianza con l’attore Zero Mostel. L’unico marxismo che tollerava era tendenza Groucho: “Di qualsiasi cosa si tratti, io sono contro”. La parola “canone” irritava i suoi nemici, e lui tirò fuori anche la parola “genio”: nel titolo di un libro su cento uomini di talento, che gli fruttò un milione di dollari d’anticipo (e nemici in più, il letterato serio deve vivere di stenti). Teorizzò L’angoscia dell’influenza, sindrome che coglie ogni giovane scrittore o poeta che si misura con i maestri e li vuole superare. Anche in letteratura per crescere si uccidono i padri, come diceva Sigmund Freud, ma senza spargimento di sangue.

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