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Il latte nero

Sergio Garufi

Abbasso i retroscena. Lode all’ovvia e disperata superficie di cose e persone. Nonostante Sartre

Ha ragione Mariarosa Mancuso, la superficie è sottovalutata. E poi basta con tutti questi retroscena, complotti, dietro le quinte, come se la verità, per essere colta in flagrante, dovesse sempre trovarsi dietro qualcosa di ovvio. Ma forse conviene spingersi oltre la dicotomia del sopra e del sotto, della superficie e della profondità, che sono due opzioni ugualmente seduttive e consolatorie.

 

Mariarosa cita Oscar Wilde (“Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze”), eppure quell’aforisma è responsabile di tanti ribaltamenti meccanici di luoghi comuni che si fingono pensosi e illuminanti. Sono figli illegittimi, s’intende, ma la loro paternità è certa. Penso all’abusatissimo ossimoro del “silenzio assordante”, in bocca agli indignati di professione, e in genere a quegli stereotipi rovesciati che immiseriscono il discorso politico e giornalistico.

 

E’ un po’ come quando Sartre accusava Jules Renard (nel saggio “L’uomo legato”) di non essere capace, con la sua scrittura, di far "sanguinare le cose”, perché per lui il “latte era disperatamente bianco”, mentre il poeta Jacques Audiberti nei suoi versi cantava “la nerezza segreta del latte” (neanche lontanamente parente del “nero latte dell’alba” di Paul Celan), cogliendone così la vera essenza.

 

L’immagine renardiana per Sartre era debole, pavida, affetta da una tara positiva che la fiaccava alla radice, mentre “Audiberti ci informa sul latte quando parla della sua nerezza segreta. Ma per Renard il latte è disperatamente bianco, perché è quale appare”.

 

Ora, un latte bianco può anche far sorridere (non era sempre Wilde a dire che se uno scrittore usa la parola zappa per indicare una zappa allora è il caso che la usi davvero?) – sebbene l’incauta collisione fra l’essere e l’apparire più che prosaica dovrebbe riuscire lievemente sinistra, come quei poveretti agghindati con le proprie entragne sulle tavole anatomiche di Vesalio – ma un latte disperatamente bianco, rispetto a uno segretamente nero, sembra ritenere quanto meno un vantaggio dialettico. E questo perché quel latte bianco, ma bianco con disperazione, non è cosa che ignori la nerezza, anzi, quella stessa nerezza, sottratta al novero dei confortevoli tesori dell’interiorità, ora lo abita interamente, e lo informa di sé con la flagrante pervasività di una speranza tradita.

 

Sartre voleva fare il furbo insomma, ma steccò l’avverbio. Intendeva evidenziare lo scarso rilievo connotativo dell’immagine renardiana, assimilandola a un latte ordinario, dal mediocre profilo semantico-nutrizionale, il trionfo della convenzionalità e del perbenismo denotativo, di contro al sapido latte di Audiberti, complesso, malizioso, eversivo, addirittura segretamente nero, ma con un eccesso di sufficienza introdusse quel “disperatamente” a modulazione dell’aggettivo e la faccenda cambiò.

 

Da un lato perché non si approfondisce affatto un oggetto rovesciandone in maniera meccanica un suo attributo corrente e facendo di questo il suo insospettabile segreto, altrimenti chiunque potrebbe rivelare al mondo l’acume segreto di Toninelli, o la finezza interiore della Meloni (due di quei segreti che ci si porta nella tomba, nella fattispecie), per poi correre a farsi incoronare d’alloro in Campidoglio. E poi perché accompagnato a quell’avverbio il biancore di Renard cessa di essere il candore degli sciocchi, i quali, ignari di nerezze, non avrebbero alcun motivo di disperarsene.

 

Questo latte renardiano, a un tratto disperato (di punto in bianco, verrebbe da dire), nel presentire la propria chiarità come un esilio ha dunque contezza di nero, e la partecipa nel modo più eloquente. L’avverbio lo riconsegna a quell’intimità con la nerezza che Sartre intendeva negargli: la nerezza stessa gli si offre ora tutta intera, e l’aggettivo la riassume in sé, non come cauto possesso borghese, ma come desiderio frustrato e lutto immedicabile; non come si tiene un frac in fondo all’armadio ma come si è invasati da un amore impossibile.

 

Se, per citare Benjamin, conosce una persona soltanto colui che l’ama senza speranza, allora quel latte “disperatamente bianco” non solo ci parla del nero ma, soprattutto, ci dice l’essenziale.

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