Mentre morivo. Cory Taylor e il suo ultimo splendido ballo con la vita

Marco Archetti

Il cancro e il suicidio, forse, in un racconto al limite delle parole

C’è una foto che si può trovare in rete. Una foto della scrittrice Cory Taylor mentre muore. E’ adagiata su un divano, credo in quello stesso salotto che, nel suo splendido “Morire. Una vita” (Il Saggiatore, 149 pp., 20 euro), descrive per ciò che era diventato: metà di tutto il suo mondo di donna malata, un mondo contrattosi in due stanze – l’altra era la camera da letto, in cui, più che dormire e riposarsi, vegliava e si affaticava, dialogando con la madre defunta, raccontandole i pensieri, sforzandosi di ripercorrere la vita. In questa foto Cory Taylor indossa una maglietta gialla, ha la testa adagiata su un cuscino e si sforza di sorridere, ma è più che altro una smorfia che tenta di acciuffare la coda di un sorriso, anche se poi, chissà, non si può dire, magari è un sorriso vero, un sorriso autentico, perché forse un frammento di gioia gravemente irragionevole ancora può passare da quelle parti, sebbene quelle parti siano “la terra più amara di tutte”: non tanto il cancro al cervello, ma la coscienza della morte che sopraggiungerà in tempi brevi e improvvisi, e che non ci saranno scampo o dilazione.

 

In questa foto la scrittrice ha il volto scavato eppure tumefatto, disseccato e gonfio allo stesso tempo, terreno esausto sul quale si consumano le iperboli crudeli della sofferenza, regista scellerata che mischia ciò che non si potrebbe mischiare e lo manda in scena, indecentemente, sul nostro corpo, nel nostro sguardo. E siccome non c’è copione che regga di fronte a una regia implacabile, tanto vale fare quello che uno ha sempre fatto: nel caso di Cory Taylor, scrivere, raccontare.

 

“Non sono mai morta prima, è il nervosismo del principiante”, confessa la scrittrice prendendo il toro per le corna già nelle prime frasi, già nell’incipit, quando ci avverte di aver comprato via internet, su un sito cinese, un farmaco per l’eutanasia. L’opzione di tenerselo in tasca perché non si sa mai, è preferita a quella di mettersi in viaggio e andare in Perù, dove basterebbe dire che devi abbattere un cavallo e “te ne vendono quanto ne vuoi”, e la pensano più o meno tutti così, gli amici di Cory Taylor, suoi fratelli di dolore, quelli che come lei – ritrovandosi in una sala d’attesa di ospedale piena di gente ammalata – hanno provato la sensazione di venir fuori all’improvviso da un mondo di finzione (la quotidianità) e di entrare nel regno della realtà (la malattia mortale). Sono sei, gli astanti di quell’appartato tavolino che si ritrovano settimanalmente a parlare, a ridere della mortalità condivisa e a capire insieme come andarsene nel modo più opportuno, rispettoso o sensato. Lo fanno al bar perché “nonostante l’onnipresenza della morte, non ci sono spazi che permettano di discutere pubblicamente del morire”, nemmeno negli ospedali, nemmeno lì si parla di morte.

 

Gli amici di Cory Taylor sono persone affette da Alzheimer, malati di cancro, e poi Carol, che dopo anni di abusi da parte del marito sopravvive grazie a tremendi cocktail di psicofarmaci. “La sofferenza mentale la porta a mettere in dubbio che valga la pena di andare avanti”. Ma condividere l’ipotesi del suicidio non significa che tutti siano convinti di praticarla, anzi, non si può mai parlare di morte senza innescare una catena infinita di domande sul piacere, sul dolore, sul destino, sul rimpianto, sui significati primi e ultimi. E infatti il libro è pienissimo di contrattempi interrogativi, di lampi di vita e di passato, di coscienza che improvvisamente, un giorno, da bambina, ti dice che ci sei, ti rivela che esisti, ed è proprio raccontando quel luminoso momento fondativo che, da riflessione sulla vita, il racconto decolla e diventa riflessione sull’esistenza. Una riflessione piena di gratitudine per cose e persone, fallimenti e regali inattesi, e certamente si tratta di un ballo con la vita che se ne sta andando, ma non cominciamo ad andarcene già quando appariamo in scena? La vita è una, ma soprattutto è simultanea: ciascuno di noi è un ragazzo e anche un uomo che muore, per questo comprendere la morte è il supremo compito vitale. “Morire. Una vita” è il racconto della vita mentre accade la morte, un dialogo coi propri giorni portato fino all’estremo limite delle parole, quando la malattia comincia a minarle e a farle barcollare, finché poi ti lasciano solo e nudo davanti al momento invincibile. Un libro che è un grande regalo e una risposta a tutti i facilismi, perché vivere è rinunciare a Parigi per essere noi: l’unica vita possibile, fino all’ultima scena.

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