Bruxelles (foto Pixabay)

Un giallo avvincente diventa il miglior manifesto politico dell'Europa unita

Andrea Affaticati

La straniante Bruxelles nel nuovo libro di Robert Menasse

Come trasformare un avvincente giallo in un manifesto politico pro Unione europea lo dimostra lo scrittore austriaco Robert Menasse nel suo ultimo libro La capitale, da poco uscito in Italia per Sellerio. I tempi sono tutt’altro che favorevoli a una maggiore integrazione, e non lo erano già nel 2015, quando Menasse stava lavorando al libro. Allora erano stati Hans Magnus Enzensberger e Jürgen Habermas a scendere in campo contro il pachiderma burocratico insediatosi a Bruxelles. Menasse, interpellato in proposito, aveva detto di non condividere affatto la critica dei due filosofi tedeschi. Perché, pur ammettendo le innumerevoli pecche della casa europea, era stato raggiunto anche un importantissimo traguardo. “Per la prima volta nella storia di questo continente esiste un centro verso il quale tutti i paesi, volente o nolente, convergono. Un centro che saprà portare avanti una rivoluzione strisciante, modificando lentamente gli assetti di questo continente, oppure ne causerà l’affondo”.

 

Per il suo giallo Menasse ha trasformato Bruxelles in un palcoscenico sul quale far agire i personaggi liberamente inventati, ma al tempo stesso strettamente legati al ruolo politico di questa città. E’ un gruppo assai variopinto che si muove sulla scena: un maiale che pare aggirarsi per le strade di Bruxelles, un professore che viene ucciso in un albergo, un sicario polacco membro di un’oscura confraternita religiosa, un vecchio ebreo che tiene conto delle morti dei suoi compagni di martirio ad Auschwitz, un gruppo di funzionari della commissione Cultura chiamati a organizzare il Jubilee Project per il cinquantesimo anniversario della Commissione europea. Attraverso l’intreccio di questi personaggi, destini, rimandi storici, prende forma una trama sempre più fitta, caotica, apparentemente dispersiva eppure tanto familiare quanto spesso anche straniante al cittadino europeo. Bruxelles come una cacofonia di lingue, mentalità, ambizioni, interessi particolari che qui si incontrano, scontrano e a volte s’annientano.

 

I personaggi sono fittizi ma il contesto nel quale si muovono invece è reale: i palazzi dell’Ue, i dibattiti spesso vuoti che i vari think-tank organizzano sul futuro dell’Unione, il piccolo esercito di funzionari che si muove quotidianamente trascinando al guinzaglio l’ormai inseparabile trolley. Per come tratteggiati, sono personaggi in cerca d’autore e il fatto che abbiano incontrato Menasse, siano diventati il megafono di questo convinto europeista, appare a sua volta del tutto casuale. Perché lo schema di questo libro, ed è una delle sue peculiarità intriganti, permette a chiunque di inventarsi altri personaggi, un altro sviluppo, un altro finale. Così Menasse fa dire all’austriaco Alois Erhart, professore emerito di Economia, che “gli stati in concorrenza tra di loro non sono un’unione anche se hanno un mercato comune”. E che c’è bisogno di “lavorare alla creazione di condizioni generali per fare di un’Europa formata da collettività in concorrenza tra di loro un’Europa di cittadini sovrani con gli stessi diritti”. Mentre a Martin Susman, funzionario della commissione Cultura incaricata di organizzare il Jubilee Project, affida il compito di andare oltre a una mera celebrazione retorica, affinché “una società che ha perso la memoria” capisca cosa voleva essere e “un continente malato allo stadio terminale ricordi quale era la medicina che gli prometteva la guarigione, la medicina che aveva smesso di prendere e poi dimenticato”. In altre parole, di riappropriarsi del monito sul quale si fonda l’Ue: “Mai più Auschwitz”. Riflessioni, prese di posizioni che si intrecciano con le indagini dai risvolti inquietanti circa l’omicidio, la fuga del sicario e la sua morte, con le frustrazioni e le storie di letto e invidie quotidiane che animano i palazzi dell’Unione europea. Un continente che appare sempre più vecchio, in cerca di nuovi autori e nuove visioni. come quella affidata all’anziano professor Erhart, che propone di ripartire da capo, cominciando da una nuova capitale europea. Ma non da una qualsiasi altra capitale al posto di Bruxelles. Deve essere una capitale costruita dalle fondamenta, una città proiettata verso il futuro e che al tempo stesso mai potrà dimenticare. E c’è solo un posto che corrisponde a questi requisiti: Auschwitz. “Avete il coraggio di riflettere su questa idea?”, chiede Erhart all’uditorio. Una domanda che Manasse rivolge ai lettori.

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